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Claudio Forzatè, Commedia pastorale

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 [3] MEG.
 Già ch’el desio dell’alma dea Giunone
 avrà prospero fine
 di strugger questi colli,
 che già felici al mondo
5portar corona sopra ogn’altro monte,
 altro a far non mi resta
 che lasciar questa luce.
 Ardi, Euganea, dunque ardi!
 Né sol pastori e ninfe
10restin da questa face
 pieni di rabbia e sdegno,
 sì che tutti morir convenga tosto,
 ma questi euganei colli,
 boschi, campagne e rive,
15indifferentemente ardano tutti.
 Godi, Giunon, or godi,
 ché di questi Troiani
 non pur viverà testa
 ma tutto anco ’l paese
20dal furor di Megera in breve tempo,
 come desii, in polve sia converso.
 
 
 [5] VEN.
 Non sarà, cruda e maledetta Erinni,
 l’opra tua, che Giunone abbia ’l suo intento
 mentre del mio figliol pungeran l’armi!
 Com’esser può ch’ancor costei si serbi
5ira sì fiera e così longo sdegno
 contra ’l troiano sangue a me sì caro,
 che non sazia di tante e tante offese
 queste reliquie in un da me raccolte
 di tanti e tanti eroi spegner ricerca?
10Mentre ch’a l’ombra del mio sacro tempio,
 che nel più alto colle Euganea tiene,
 col mio figliolo Amor l’aura godea,
 vidi una delle dee del cieco Averno
 sparger per questi colli ardenti fiamme,
15et io quasi indovina a questo male
 trovai presto rimedio, et ho speranza
 (se a caro figlio madre aver dê fede)
 di volgere il lor pianto, i lor martiri,
 le morti in riso, in giogia e in lieta cura
20Voi, ch’a questo sol fin, cari e graditi
 miei devoti, attendete, non vi paia
 strano se finte veste e finti nomi,
 pastori in gonna femminil involti,
 ninfe succinte da pastor vedrete;
25e quanto più seran le lor querelle
 con modi disusati avvinte e strette,
 tanto più facilmente saran sciolte,
 ché così ’l mio figliol sol per servarli
 dall’odio di Giunone a far gl’insegna.
30Anch’io per non mancar di favorirli
 quanto si estenderan le forze mie
 sempre vagando al mio bel colle intorno
 invisibil starò per queste rive
 sedendo in braccio all’erbe e le viole,
35e di tanti sospir, singulti e pianti
 tacita, come voi, vedrò la fine.
 
 
 Atto I Scena I
 
 Persea sotto nome di Fidizio, sola.
 
 Non è tant’al soffiar di oridi venti
 debole arbusto quinci e quindi spento
 quant’è del mio pensier rotto ’l camino.
 Misera et infelice
5Persea, chi fia ch’almeno
 di consiglio t’aiti?
 Non vale a tue miserie esser soletta
 dal tuo loco natio
 in abito succinto
10fuggita sotto nome di Fidizio,
 lassa, per ritrovare
 un pellegrino erante?
 Devrian tanti paesi e tanti coli,
 ch’invano hai ricercato, aver già spento
15di te di lui ogni memoria antica,
 ma quanto più m’allungo
 alla fiamma m’appresso.
 Or di tanti sospiri e tante penne
 ancor non sazia questa mia crudele
20[8] fortuna mi fu guida in questi colli,
 ove fermata alquanti mesi sono
 per intender di lui qualche novella.
 Ahi, ch’in vece di lui mi fece Amore
 venir inanzi agl’occhi
25una ninfa leggiadra,
 nomata Ermilla che si rissomiglia
 al mio bel pellegrino
 Ortigio che, se fusse da pastore
 vestita giurerei
30esser lui e non ninfa;
 onde, perché ’l mio sol parmi vedere,
 l’onoro et amo né già mai la lascio.
 Ella credendo me qualche pastore,
 mi fugge, m’aborisse, m’odia e sdegna.
35Misera Persea, a che ti sei ridotta?
 Donna amar donna che ti spregia e fugge!
 Che rimedio poss’io donque trovare
 alla mia penna s’io mi scopro a lei?
 So che mi farà degna
40[9] della sua compagnia,
 ma non così vestita per non dare
 di sé fama non buona all’altre ninfe.
 Da donna non mi vuo’certo vestire,
 ché, mentre sotto il mio nome di Persea
45senza sentir amor lieta vivea,
 un misero pastor, ch’Ardenzio ha nome,
 di me s’accese e in vive fiamme ardea,
 onde, essend’io dal nido mio partita,
 seguimmi e in questi colli anch’ei dimora,
50che son sicura, se mi conocesse,
 di non poter fuggir dai lacci suoi.
 Che far debb’io? Morire?
 Ché morte fora ’l fin de tanti mali.
 Chi vide donna mai donna seguire?
55Ma Amor, che sol in me sue forze impiega,
 causa contrario effetto
 in questo ardente petto
 da natura diverso e dal costume.
 Deh, pellegrino amante,
60vedi che Persea, crudo, ti persegue
 [10] quanto più t’allontani?
 Almen, misera me, sapessi dove
 volger per ritrovarti il mio camino,
 ché per vederti al centro io n’anderei;
65ma almen se te, ben mio, veder non posso,
 godano gl’occhi miei tua bella imago
 nel contemplar Ermilla.
 Et ora io vo a veder per questi colli
 fra questi boschi e piagge
70se ritrovar la posso
 per ralentar la fiamma
 che per Ortigio l’alma e ’l cor m’incende.
 
 
 Atto I Scena II
 
 72 LIC.
 Qual più felice stato, Servia mia,
 del nostro esser potria, ch’in questi colli
75d’Amor nemiche e d’ogni ben nemico
 liete viviamo ivi passando l’ore
 in servir quella dea che tanto n’ama!
 [11] E quel che più felice ognor mi rende
 è ch’essendo da Padoa allontanata
80allontanata son da quel Ortigio
 che tanto al mio bel stato era molesto.
 Omai non odo più tante querelle,
 tante preghiere tanti falsi pianti
 con tante menzogne, arte diverse
85ch’usan gl’uomeni infidi
 sotto nome d’Amor, d’Amor nemici.
 Oggi tra questi lieti euganei colli
 or con l’arco n’andiamo or con le retti
 cacciando le paurose e lievi belve,
90ch’altra giogia non è sotto la luna;
 talché render al ciel grazie doviamo
 di tal felicità, di tanto bene.
 SERV.
 Licinia mia, non se ti può negare
 che felice non sia la nostra vita
95e che l’aver la patria abbandonata
 non sia vita più libera e sciencera
 fra questi boschi e solitarii rivi;
 [12] ma temo che le giogie e i piacer nostri
 da qualche rio sucesso
100non sian turbati e rotti,
 perché sai ben che nei maggior ripossi
 agl’infelici e miseri mortali
 volgiendo il crine la Fortuna ria
 sòl sempre diostrarsi,
105e quanto è poi maggiore
 il ben tanto più grave il mal ne segue.
 LIC.
 Sempre dal ben si dee sperare il meglio.
 Servia, non ti lasciar dalla paura
 vincer, statene allegra. E che sinistro
110vòi tu che perturbare
 possa i nostri felici almi ripossi?
 SERV.
 Amor.
 LIC.
               Amor? Se per fuggire Amore
 siam dal nostro natio loco partite!
 SERV.
 Adunque credi tu che dell’offesa,
115che da noi quel fanciullo ha ricevuta,
 sdegnato non vorà tardi o per tempo
 [13] far con ogni ragion giusta vendetta?
 LIC.
 E ch’arme può egli oprar contra di noi,
 ch’armate siam di pura e casta fede?
 SERV.
120Strali, arco, fiamme, lascio, vischio e retti:
 non mancan arme a chi è pronto a ferire.
 LIC.
 Tìremi quanto ei sa strali e saete,
 ch’io non temo di lui.
 SERV.
 Non dir così, Licinia.
125Amore è un fuoco che quanto più ritrova
 la matteria tenace
 più s’apprende e maggior tempo dura.
 LIC.
 Sai di che temo, Servia?
 SERV.
                                               Di che temi?
 LIC.
 Che tu non sii fin ora innamorata,
130che così pregi e riverisci Amore.
 SERV.
 Sciocca in tutto sarrei, lasciata avendo
 per te servire il mio caro Gareglio,
 se ad altro amante io mi donassi in preda,
 quantunque ognora stimulata e punta
135da Marzio sia né mai lasciata in pace.
 LIC.
 Et io dal mio patron, ch’è quel Lucenio.
 Non posso viver qui lieta o sicura,
 [14] ch’ei non mi sia continuamente al fianco.
 SERV.
 Degna saresti ben d’ogni supplicio,
140lasciato avendo per fuggir Amore
 patria, padre, fratel, richezze e pompe,
 a donarti a un pastor vile e da poco.
 LIC.
 Di ciò non dubitare e prego ’l Cielo
 che con ardenti strali
145levi a me questa vita,
 che tanto allongar cerca ogni mortale,
 più tosto che si dica:
 “ Carilla, c’ha lasciato
 nobile e bello amante,
150ad altri è fatta amica ”.
 SERV.
 Ciò ti conseglio fare.
 LIC.
 Non occorre consiglio
 a risoluta mente.
 Ma già m’era scordata
155ch’oggi fra questi colli
 [v’ha] una caccia superba e giunta è l’ora.
 [15] Andiamo dunque tosto
 acciò ch’in compagnia dell’altre ninfe
 ancor noi siamo al destinato loco.
 SERV.
160Andian, che prego i Dei che queste caccie,
 questi antri e queste selve
 in vece di gioire
 non ci faccian perire.
 
 
 Atto I Scena III
 
 164 ARD.
 Ove a cercar, Ardenzio, più ti resta?
 SGAR.
165Miessì, a’crezo che siam de là dal mondo!
 On volìo pì anare?
 ARD.
                                      Nell’inferno
 vogl’ire al fine.
 SGAR.
                               Andè da vostra posta,
 i nostri patti si no sta cossì.
 Se a’volesse pì annar malabiando,
170an mi narae cercando la me Dina.
 ARD.
 Adunque, senza fe’, me vuoi lasciare?
 SGAR.
 No, misier no, ma a g’he fatto invuò
 de n’andar per bontè donde c’hi ditto,
 se no ghe vegno strassinò per forza.
 ARD.
175Che sciocco: egl’è un parlar.
 SGAR.
175                                                    Ma per parlare
 n’in vite mai neguna a ingraviare,
 disse la Lenza.
 ARD.
                               O Persea, ove sei gita?
 Tanti colli, campagne,
 torrenti, fiumi e laghi,
180antri, spelunche e dirupati sassi
 stati non son possenti
 mai d’arestar miei passi.
 SGAR.
 Se per aer cercò per tutto ’l mondo
 a’ve lagnè, che dégogie far mi
185que son stò in te la Sguercia, in la Marubia,
 in la Pogia, de là da la Finasia,
 in la Pellanda, in la Romagnaria
 e po in dreana chive in la Luganega?
 ARD.
 Chi t’ha fatto venir tanto da longe
190dal tuo paese, caro ’l mio Gareglio?
 SGAR.
 Quelù che tira senza zovo o lazzo,
 l’Amore.
 ARD.
                    Amore? Adonque tu sei stato
 [17] innamorato?
 SGAR.
                                   Oh, no ghe fosse stò,
 che a’sarae alla Guizza!
 ARD.
                                               Cosa nova
195m’è questa, certo, e me ne maraviglio.
 SGAR.
 A’ve smaravegiè? Mo que no songe
 an mi maschio co è gi altri, se be’a’son
 grosso de lengua e an de snaturale?
 ARD.
 Nasce in me meraviglia
200che non me l’abbi detto,
 non ch’io ti stimi inetto a guesta impresa.
 Ma dimi, quando e come
 t’inamorasti? e perché ti partisti,
 caro Gareglio?
 SGAR.
                               Mo su tonca ascoltè.
205Mi a’son d’un luogo che ven menzonò
 per tutto ’l mondo, que xe mo ’l Pavan,
 e sì a’son d’una villa ch’i ghe dise
 la Guizza, ch’è da lunzi po da Pava
 (ch’è na bella cittè) da tre amegia.
210Orben, a’giera un puovero brazzente,
 a’gh’éa una chiesura con un cason
 in cima fatto de cane e de pagia,
 [18] che a starghe entro a’ghe poéa lombrare
 quante stelle la notte iera su in cielo,
215a’digo mo, luzente e reluzente
 ch’el parea un crivello, seben el foesse
 stò un de quî da crivellar mellon.
 Cancaro, l’invernà gh’iera bon stare!
 Guardè ch’el vento ghe restasse entro!
220El ghe zugava per entro e per fuora
 ch’a fare ’l zuogo della corezzola.
 Orben, co digo rivarve da dire,
 una mattina a’lieve su a bon’ora
 per anar a portar della salata
225a Pava e tuogo suso i miè ceston
 a muò ’n aseno cargo a pì poere.
 Co son a Pava, int’un luogo que i ghe
 dise el Pra dalla Vala, a’vego zente
 che camina indrio e inanzo su quel prò:
230uomeni, tusi, tose d’agno fatta;
 [19] intra le altre a’vezo una barella
 con do femene entro, una parona
 l’altra massara, na bella maschiotta.
 Quando che la me vete con quei cisti,
235la me chiama per tuor della salata.
 Mi, perché quella tosa m’aéa piasù,
 a’gh’in cerné na gamba bella, grossa,
 vì, tanto fatta, dura capucina,
 e de quel che toléa da gi altri un soldo
240a’no vussi da ella lomè un bece,
 e an sora mercò a’ghe donié
 un mazzo de viole rosse e zale,
 e inte ’l porzerghe entro quel mazetto
 a’ghe tocchié la man. Miessì, de fatto
245el parse ch’una bampa me toccasse
 che a’m’impigié.
 ARD.
                                   O Amor, quanto hai possanza,
 che nel cor di costui sì tosto entrasti!
 Segui.
 SGAR.
                Mi no saéa che fosse Amore,
 ma ’l cuore me tirava anarghe drio,
250che a’la compagnié a ca’e po a’tornié
 [20] de fuora perso, morto e stravanio
 ch’a’no paréa pì quello; e sì a’no aéa
 mè ben lomè quando a’tornava a Pava,
 ch’a’gh’anaséa a posta solamen
255per vêr la me morosa, la me Dina,
 che l’aéa lome Dina, quella tosa.
 ARD.
 Avesti mai da lei benigni sguardi,
 gratte parole, risposte cortesi?
 SGAR.
 Gnente, paron, tantin manco che gnente!
260A’faséa co fa ’l can de donna Ruosa,
 che sta de fuora e sì leca la schiona.
 A’no pussi mè fare che sta lova
 me volesse guardare.
 ARD.
                                         O me infelice!
 Sventurato il patron, misero il servo!
265Come passavi in sì penosa vita?
 SGAR.
 Male! A’menava la vita pì dura
 in cinque dì che a’no magnava un pan,
 paron, e la mattina, co a’levava,
 a’gera sì ’ndurio, sì smasenò
270[21] e deventò sì destrutto e sconio
 che con un deo a’m’avessé passò
 da na banda all’altra e, chi m’aesse
 cazzò na candelletta inte le neghe,
 arae paresto un lanternon da zaffo.
 ARD.
275Come facesti a uscir di tanto ardore?
 SGAR.
 M’aldì: a’m’apensié na bella botta.
 A’veni a Pava un di, e sì a’fié tanto
 che, abianto de besogno i so paron
 de serviori, a’m’accordié con egi,
280e sì andé a star in ca’don la stasea.
 ARD.
 O gran ventura in amoroso stato!
 Or che volevi più?
 SGAR.
                                    La me fortuna,
 che m’ha sempre tegnù zapegò adosso,
 sì me vosse rivar de confettare.
285La me parona gh’aéa una figiola
 che aéa lome Barila, bella delle belle,
 fè conto un boccoletto dalmaschin.
 In ella gera cotto un zoenetto:
 sie cotto po in lardo de scroa vecchia,
290[22] che fora g’vuossi e cuose le megole!
 L’éa lom Oltrigo, un bel compagno an elo,
 zoene, bianco, senza pelo in barba.
 El poeretto gramo in du o pì agni
 che l’aéa dunià, n’aéa mè bio gnente,
295tanto ch’un dì el fé domandare
 ai suò che i ghe la desse per mogiere.
 La puta, che gera meza santarella,
 per no torre sto Oltrigo per mario,
 ch’i ghe l’éa promettua, si scampé via
300da Pava, e sì mené via la me Dina
 co ella, in tanto sussio, in tanto vento
 che mè pì n’ho possù saer noella.
 ARD.
 Ahi, che son io nel tuo medesmo stato,
 ché già sei mesi son m’innamorai
305di Persea, la più bella ninfa
 che l’Euganea illustrasse,
 né sì tosto fui preso
 ch’ella ratta fuggìo seco portando
 [23] il core e la catena
310e sol mi lasciò erede
 di sempiterna penna.
 SGAR.
 A’se podon dar man, che a’seon na cubià
 de du desgraziè.
 ARD.
                                 Come partisti
 di là?
 SGAR.
               Mo a’tussi suso na mattina
315da desperò e sì a’me missi anare
 caminanto de dì, da meza notte,
 d’ogn’ora, per la pioza e per lo vento
 e per lo sole, tanto che a’son stò
 squasio per tutti i paesi del mondo.
320In ultimata a’veni on che a’stasivi
 in prima, e sì son po fermo con vu,
 straco de la faiga e dal cercare.
 ARD.
 Altri duo non si son sotto la luna
 più di noi sventurati!
 SGAR.
325Mettì du cavai orbi in mezo un prò,
 deffatto tutti du i se va a catare.
 ARD.
 È vero. Andiamo insin al nostro armento,
 che già fa un pezzo che si siam partiti,
 ove sotto d’un’ombra sfogheremo
330con maggior agio i nostri aspri martiri.
 SGAR.
 [24] Andagon, ch’a’faron lomè un viazo
 e du servisii, che a’me sento anare
 i gambari zà un pezzo per la panza
 da fame.
 ARD.
                     Andiam, che farai colazione.
 
 
 Atto I Scena IV
 
 335 Ortigio, vestito da ninfa nomato Ermilla, solo.
 
335Quando fia sazio Amor di darmi pene?
 Quando sarà quel dì che questa vita,
 in cui scolpita ognor morte si vede,
 da me si parta e me fredda mi lasci?
 Misera Ermilla, anzi misero Ortiglio,
340ché mentre solo sei tu puoi sfogare
 sotto ’l tuo vero nome i tuoi martiri!
 Qual partito poss’io, lasso, trovare
 ch’a uscir di questo ardor punto mi vaglia?
 [25] Deh, Carilla crudele,
345pensavi tu con la tua presta fuga
 da Padoa che seguir non ti dovesse
 Ortigio? Ma l’amor ch’egli ti porta
 l’ha condoto a seguirti anco in Euganea.
 Credevi tu che con mutarti il nome
350di Carilla in Licinia
 che ’l tuo fedele amante
 non ti riconoscesse? Ei ti conosce,
 ingrata, perché t’ha sempre nel core;
 ma tu, ch’ognor con lui vivi e conversi,
355no ’l riconosci, così t’è lontano
 egli dal cor, come se mai veduto
 non l’avesti né udito
 ne la tua patria cara.
 Chi vide mai che per fuggire Amore
360donna fuggisse in sì lontano loco?
 Chi vide mai sì sventurato amante
 che, volendo goder l’amata vita
 e non esser fuggito, mi bisogna
 [26] in abito di ninfa in questi colli
365celar il nome, il sesso, il viso e i panni?
 Licinia come donna m’ama e pregia,
 Ortigio ha in odio e per lui Padoa lascia.
 Deh, quante volte a ragionar con lei,
 miser, mi trovo e spesso le dimando
370se mai ferite al cor le diede Amore!
 Esser ella d’Amor nemica giura
 mentre arrà vita e poi dopo’mi nara
 esser fuggita per fuggir l’amore
 d’un ch’el nome non sa né men vol dire.
375Io misero l’ascolto e tengo il pianto
 né men òssole dir che fece male,
 anzi la lodo e sin al ciel l’esalto.
 
 
 Atto I Scena V
 
 379 VEL.
 Ermilla, che fai qui così soletta?
 ERM.
 Veletria, aspetto un pezzo qui Licinia,
380[27] che mi dice voler ir alla caccia
 oggi, né dopo più l’ho riveduta.
 VEL.
 La trovai già poco è che con Fidizio
 verso la fonte raggionando andava.
 Ei, che di me s’accorse,
385ratto fuggì ’l crudel per non vedermi.
 ERM.
 Dunque Fidizio sciocco oggi non cura
 così ricca ventura?
 VEL.
 Non, ch’a te tutto ha donato il core.
 Com’esser può ch’Amor tanto l’accechi
390che segua me se lui veloce fugge?
 ERM.
 Amor, che di tormenti
 vive d’amanti, causa
 così strani accidenti.
 Veletria, segui pur forte l’impresa
395né ti smerir perché quand’egli vegga
 da te spregiarsi, a te volgerà ’l core.
 VEL.
 Ahi, che novo sospetto
 m’ingombra l’alma e temo
 che già Licinia acesa sia di lui!
 ERM.
400Licinia? Ohimè, son morta!
 VEL.
 Che dici?
 ERM.
                      Io dico che Licinia ha torto
 a levarti Fidizio, ma non credo
 ch’ella, verso d’Amor tanto rubbella,
 così subitamente accesa fosse.
 VEL.
405Ermilla, poco foco incende un core
 che sia sciolto d’Amore, e tosto l’arde
 quand’il suggetto è tal qual è Fidizio.
 ERM.
 Se Licinia è fuggita dal suo nido
 natio solo per un ch’ardéa per lei?
 VEL.
410Amor per far di lei forse vendetta
 l’arrà seguita e al varco l’avrà presa.
 ERIM.
 Ohimè, se questo fia!
 Andiamo a ritrovarla, ché già pezzo
 è l’ora della caccia, e là vedremo
415al parlar et a gl’occhi,
 d’Amor veri messaggi, s’egl’è vero
 quel che m’hai detto.
 VEL.
                                         Andiam, che prego i Dei
 che non sia vero.
 ERM.
                                  Ahimè, ch’io spero e temo.
 
 
 Atto I Scena VI
 
 419 [29] MANG.
 Ti dirò ’l ver, tu non mi fai peccato,
420ché pazzo mi par l’uom che può star bene
 e va cercando il male.
 LUC.
 Mangino mio, tu mostri amarmi poco.
 Se fusse in mio poter lasciar l’impresa,
 la lascierei, ma Amore
425è quel che mi fa forza.
 MANG.
 Venga il malanno a Amor e chi lo vole
 meglio di me!
 LUC.
                             O felice che sei!
 MANG.
 Sai perché son felice? Perch’io voglio.
 Lucenio, se facesti com’io faccio,
430faresti bene e più ti gioveria:
 com’io veggio una ninfa, chiudo gl’occhi,
 e com’al pranso son, gli schiudo et apro.
 LUC.
 Non hai provato mai forza d’Amore?
 MANG.
 Com’s’io l’ho provata? Stato [mi] sono
435bestialissimamente innamorato.
 LUC.
 Di che, Mangino?
 MANG.
                                   D’uno vitelletto
 che con l’armento del misero Ardenzio
 bianco, grasso, giocondo e lieto pace,
 che, s’io l’avesi, e che migliore amore
440saria di quel d’un affamato core?
 LUC.
 Che più lieto gioir che d’una ninfa.
 goder tra questi ruggiadosi colli,
 quando che’l sole è più vicino a noi,
 e passar solazzando i giorni e l’ore?
 MANG.
445Veggio ben che tu godi e che gioissi:
 pianger ti sento ognora e lamentare
 che pari pazzo. È questo il tuo gioire?
 LUC.
 Sai tu perché? Perché mia trista sorte
 vuol che Licinia mia
450mi si mostri sì ria.
 MANG.
 Oh, se le ninfe seguitasser noi,
 credo ch’anch’io per una volta sola
 mi lascierei pigliar, ma non so certo
 se m’areschiassi pormi a discrezione
455di queste donne, che n’han molta poca.
 LUC.
 Qual più felice vita d’un amante
 che per donna gentile
 arda, mora, languisca?
 [31] Dolci gl’affanni son, dolci gl’ardori,
460dolce il languir al fin, dolce la morte.
 MANG.
 Qual più giocondo stato d’un pastore
 che senza altri pensier lieto cantando
 dietro ’l suo armento vada in questi coli
 e quivi sotto un’ombra si ripossi
465del suo dolce viaggio e si ristore
 col suo buon pane, cascio e meglior vino,
 lieto onorando il buon liquor di Bacco
 e scaciando da sé lontano Amore?
 E come c’ha mangiato gl’occhi chiuda
470al sono e poi ritorna al suo viaggio
 per sino a tanto ch’a noi luce il giorno?
 Ma come il cielo a noi le stelle mostra,
 egli, riutto alla capana sua
 e posto il gregge nel sicuro ovile,
475le stanche membra fin a l’alba possi?
 Quest’è, Lucenio mio, felice vita,
 quest’è l’amor del tuo caro Mangino;
 però lascia le donne e in compagnia
 [32] meco lieto ne vivi insin ch’el Cielo
480tronchi del viver nostro il debil stame.
 LUC.
 Mangino mio, deh, fusse in me ’l potere
 pronto com’il volere!
 Deboli son mie forze a tal nemico.
 Non vedi tu che, se son privo un giorno
485di non veder Licinia morto sono?
 MANG.
 Se tu provassi un poco star un mese
 senza vederla, te la scorderesti.
 LUC.
 Più tosto privo della luce voglio
 viver per sempre che non amar lei.
 MANG.
490Amala donque, beccati ’l cervello,
 ma vedi non venir poi a [ri]trovarmi
 piangendo come sei solito a fare,
 ch’io di te riderò, stane sicuro.
 LUC.
 Fa’quello che tu vuoi. Ecco ’l tuo pazzo
495Druscillo molto stanco et affanato.
 
 
 Atto I Scena VII
 
 [33] 496 MANG.
 Druscillo!
 DRUSC.
                     Chi mi chiama? Oh, oh, patrone.
 MANG.
 Che hai, che par che respirar non possi?
 DRUSC.
 Che ho? Di’chi non ho, che saprei dirti,
 che non ho quasi fiato
500e ti cerco già un mese.
 MANG.
 Volesti dir un’ora. E ben, che vuoi?
 DRUSC.
 È intravenuta la maggior sciagura!
 MANG.
 Che cosa? Avete voi forse lasciato
 furar la gregge al lupo?
 DRUSC.
                                             Peggio, peggio!
505Non farò certo. Vieni a la capanna,
 che da l’altro capraio tu ’l saprai.
 MANG.
 Deh, dillo tu!
 DRUSC.
                           Io dico che non voglio,
 ché mi diressi il corbo e non Druscillo.
 LUC.
 In ogni modo l’avemo a sapere.
 DRUSC.
510Udite, ch’io ve lo dirò alla breve.
 Essendo noi già pezzo fa... Non voglio
 dirlo, non voglio. Abiatemi per scuso.
 LUC.
 Perché venivi tu donque a cercarmi?
 DRUSC.
 Per dirtelo, ma poi mi son pentito.
 [34] MANC.
515Dillo, ch’io vuo’ch’el dica in ogni modo.
 DRUSC.
 Non mi fate per forza, io lo dirò,
 ma non si fa così. Che dispiacere
 vi ho fatto che volete voi sforciarmi?
 LUC.
 Non pianger, sciocco. E che t’ha egli fatto?
 DRUSC.
520Agl’uomeni da bene questi tratti!
 MANG.
 Non pianger, mio Druscillo, burlo teco.
 Dimi, dimi che ci è di male occorso?
 DRUSC.
 S’io te lo dico, poi l’altro capraio
 mi batterà, che già mi ha minacciato.
 MANG.
525Non dubitar, che batteremo lui.
 DRUSC.
 Io te ’l dirò, ma te ’l dirò per forza.
 S’egli dimanderà, farai mia scusa.
 MANG.
 Farolla, or di’.
 DRUSC.
                             Quando tu ti partisti
 questa mattina al tramontar del sole,
530subito andammo a munger noi le capre,
 e se quell’altro avesse a modo mio
 fatto, sarian le cose gite meglio.
 Volse munger la Stella senza porvi
 fra le gambe la secchia come s’usa,
535[35] e senza porle della sale in bocca;
 ond’ella, ch’è sdegnosa,
 ha tirato d’un piede
 nella secchia et il latte ha riverciato,
 ch’era più di due coppe, ivi per l’erba.
540Io mi mossi correndo
 per venirtelo a dire
 et ei mi corse dietro minacciando,
 ma non mi giunse.
 MANG.
                                     Oh, ti venga ’l malanno!
 È questa la sciagura tanto orrenda?
 LUC.
545Io mi maravigliava.
 DRUSC.
545                                      E vi par nulla
 versar il latte e poi batter la capra,
 ch’io me l’era scordato a dirti il tutto?
 MANG.
 Mi ha fatto questo sciocco oggi sudare
 senz’aver caldo.
 LUC.
                                  Anch’io certo smaniare.
 DRUSC.
550Non lo dire a Corrindo
 ch’io te l’abbia detto.
 MANG.
 Anzi glielo voglio dire.
 DRUSC.
 Almeno se volesse
 donarmi una merenda
555col solito bastone, io non mi sento
 [36] troppo appettito. Fa’che questo amico
 la tenga e me la salvi
 fin ch’io glele dimando.
 LUC.
 Tu parli ben, Druscillo.
 DRUSC.
                                             Io ho ragione.
 LUC.
560Sì. Ma andiamo, Mangino, a la capanna
 a riposarci sotto il nostro faggio,
 che de lì spesso suol passar Licinia
 e la potrem vedere.
 MANG.
                                       Andiamo, ch’io
 in vece dell’amore
565con quel tuo racentino
 rallegrerommi il core.
 DRUSC.
 Andate innanti, io me vi raccomando.
 
 
 Atto I Scena VIII
 
  568 Fidizio solo
 
 Oh come, Amore, è la tua forza estrema!
 Oh come contra me, crudo, l’adopri
570et in quante maniere mi schernisci!
 Donna amo donna a me fiera rubella.
 Veletria m’ama e mi crede un pastore,
 né mai senza di me mov’ella un passo.
 Io, ch’al bisogno suo, lassa, non posso
575sodisfar, me le mostro ingrata e ria
 on’ella n’arde et io non posso aitarla.
 Scoprirmele non voglio. Or che far deggio
 [37] se no lasciar ch’ella per me si strugga
 com’io faccio per la crudel Ermilla?
580Solo un conforto a me misera resta,
 che nel medesmo amor compagnia trovo:
 Ardenzio nel cercarmi ogn’arte adopra
 e mi vede ogni giorno e meco parla
 né riconoscer sa se Persea sono,
585Veletria dietro a me si strugge e more,
 tanto ch’io non son sola in questo errore.
 Deh, Ermilla mia, chi sa che tu non sia
 Ortigio e ch’in quel abito t’ascondi
 per burlarti di me, per darmi strazio!
590Deh, che vana speranza il cor t’ingombra,
 Persea? Non vedi tu ch’Ermilla spreggia
 quanti ch’ardon per lei
 e con Licinia sola
 vive lieta e contenta.
595ad altre cure che d’Amor intenta?
 
 
 Atto I Scena IX
 
 [38] LIC.
 Servia, è quello Fidizio?
 SERV.
                                               Me ne pare.
 Egl’è ben esso.
 LIC.
                               Oh, come ei sta pensoso!
 Andiamo salutarlo. A Dio, Fidizio,
 che pensi?
 FID.
                        A Dio, ninfe leggiadre e belle.
600Io penso a chi di me punto non pensa.
 SERV.
 Non saria meglio che tu avesti ’l core
 pronto per aspettar chi te sol segue
 ch’a seguir tu chi t’odia e chi ti fugge?
 FID.
 Servia, se del mio cor liberamente
605io potessi far dono...
 LIC.
605                                       E chi ti tiene
 che non faci del tuo quel che ti piace?
 FID.
 Colui che sopra sé non ha signore:
 Amore.
 LIC.
                 Adunque ha tanta forza Amore
 ch’il libero voler tolga a sciascuno?
 FID.
610Licinia, prega ’l Ciel che del tuo petto
 faccia questo venen nascer lontano,
 [39] che felice e beata potrai dirti.
 LIC.
 Com’esser può che chi spreggiar si vede
 da la sua donna sia tanto constante
615che voglia amarla senza speme alcuna,
 s’è ver, come si dice, che l’amore
 nasca dalla speranza?
 FID.
                                           Tu non sai
 adunque che l’amor cieco si pinge?
 Se ben sei fuor de tutte le speranze
620d’ottener il bramato tuo desio,
 egli ti pone avanti gl’occhi un velo
 tessuto di speranze
 e di finto gioire,
 che sì t’acceca che non vedi lume;
625ond’i miseri amanti fatti ardenti
 da falsa speme e da tormenti certi
 costanti seguon l’amorosa impresa.
 SERV.
 Credo che con amor tu sia nutrito,
 Fidizio, tanto ben ragion mi rendi.
 LIC.
630Io so che da Veletria sei
 più che ’l suo cor, più che la vita amato.
 [40] Ché non ami anco lei, s’ella t’adora,
 e lasci gir Ermilla che ti fugge?
 FID.
 Licinia mia, s’alla cocente fiamma
635di Veletria pottessi io dar rimedio,
 volentier lo farei.
 LIC.
 Non puoi tu donque amar e l’una e l’altra?
 FID.
 Licinia, è pur felice il tuo bel stato,
 ti puoi pur gloriar d’esser più lieta
640di qualunque altra ninfa
 ch’in Euganea dimori,
 che nel regno d’Amor priva d’amore
 vivi la vita tua dolce e tranquilla
 né sai con che catene Amore stringa
645i cuori altrui né con che foco i scalda,
 non sai come pungenti sian suoi strali,
 non provi sue repulse, sdegni et ire,
 sospiri, affanni e al fin lagrime e morte.
 LIC.
 No ’l sepp’io mai né ’l so né men saperlo
650mi credo, curo o voglio.
 [41] FID.
 Non dir così, Licinia, che non vogli.
 Troppo altiera e superba Amor dispreggi.
 Ringrazial pure e a lui umil t’inchina,
 che senza i suoi martir viver ti lascia.
 SERV.
655Anch’io, Fidizio, anch’io questo le dico,
 ma non mi crede, e si potria pentire.
 
 
 Atto I Scena X
 
 657 SGAR.
 On cancaro èlo mo cazzò sto omo?
 Oh, mo quî gruoppi de nogara, boni
 da far cortelaciere!
 LIC.
660Servia, ecco Gareglio. Sta’in cervello.
 SGAR.
 Zente, bondì.
 LIC.
                             I Dei faciante lieto.
 SGAR.
 Asséu vezù per sorte el me paron
 de quenze?
 FID.
                         Chi è costesto tuo padrone?
 Ardenzio?
 SGAR.
                      Ah, an, sier sì, ’l ha ben lom Denzio.
665L’asséu sentio?
 FID.
665                               Io già non l’ho veduto.
 SGAR.
 E vu, morose?
 LIC.
                              Non l’abbiam veduto.
 SGAR.
 Doh, oh, doh, pota de la slunciquara,
 que végogi? Voltève un puoco in qua mo,
 perdonème.
 LIC.
                           Che vuoi?
 SGAR.
                      Poh, mo, che a’vego
670[42] miracoli!
 LIC.
670                             Che sei forse tu pazzo?
 FID.
 Non vidi al mondo mai cosa più sciocca.
 SGAR.
 A’son tutto ingroppò. Miesì, non posso
 pì faelare. O parona me cara,
 mo comuò sìo chialò? O Dina bella,
675no sìto ti?
 LIC.
675                     Chi è questa tua padrona?
 Chi è questa Dina tua?
 SGAR.
 Ah, Barela, tocchèmela na bota
 la man! E sì a’son stò per tutto ’l mondo
 cercantove, mi gramo. Adesso che
680a’v’he catà, almanco no trognè!
 LIC.
 Chi è guesta tua patrona?
 SGAR.
                                                 Vu a’sì ella!
 LIC.
 Io?
 SGAR.
          Messier sì, e sì quella sé la Dina.
 SERV.
 Io son Dina? Tu non mi conosci.
 SGAR.
 Puuh, cassì ch’a’saron tutti ” io ”!
685Hale mo lagà presto el talian?
 LIC.
 Costui crede vedute averne altrove
 e qui n’ha colte in fallo.
 FID.
                                             Chi è costei?
 SGAR.
 Mo la Barela!
 SERV.
                             Tu sei fuor di senno.
 [43] Ella ha nome Licinia.
 SGAR.
                                                   Anca ti, Dina,
690te me truogni?
 LIC.
690                              E quella ha nome Servia.
 SGAR.
 Ma me volì far trar via le braghesse!
 Che vuol dir Cerva? A’non son zà imbriago.
 No sìu vu la Barella, me parona,
 che scampé via da Pava per no tuore
695quelù c’ha nome Ortigo per mario?
 No me cognoscìo mi, che a’son Sgaregio,
 vostro famegio? N’ièto ti la Dina,
 so massaretta e me cara morosa?
 SERV.
 Io ti potrei giurar che mai veduto
700non t’ho, nemen io so chi tu ti sia.
 FID.
 Vuoi che io t’insegna? Va’riposa un poco
 sotto d’un’ombra et ivi fa’un sonetto
 e puoi torna a veder chi sono queste
 ninfe.
 SGAR.
               Che ninfe! A’ve vuò dir el vero,
705frello, c’he paura che supiè d’acordo,
 con che a’ve vuò dare un consegio,
 ch’un ardigon non può far a do schione,
 vì, né un manego serve a do menare.
 A’poessan ben far da buoni amisi:
710[44] “Una a mi, una a ti, una alla vecchia
 che morì”, dise i puti.
 FID.
                                            Vai cercando
 chi ti rompa la testa e spanda il vino
 che v’hai dentro riposto?
 SGAR.
                                                Puh, a’sì bravo!
 Sìo così anch’a ca’? Che a’no fassé
715con fe Ballota che, suganto un dì
 alle carte, el spitava di dinari
 e ghe vene baston. Che cosa aìo
 da fare con ste tose, se a’le vago
 zà tre agni cercanto per lo mondo?
 LIC.
720Pur là, fratello, tu n’hai colte in fallo.
 SGAR.
 Se ’l è fallo, arì quindise! Mo mi
 a’sè ben che a’no he falò sta butà.
 Con cancaro, que te no sì la Dina?
 SERV.
 Non, ch’io non sono Dina, ma son Servia.
 SGAR.
725Cervo sarègi mi, se a’lassarè
 metterme i cuorni a questa che è su g’vuocchi!
 LIC.
 Che segnal hai ch’io sia la tua patrona
 nomata... Come dici?
 SGAR.
                                          La Barela.
 SERV.
 Nemen ch’io Dina sia?
 [45] SGAR.
730De vu, parona, a’no g’he zà segnale,
 ma della Dina, quando gera a Pava,
 zuganto ella e mi su per na scala,
 a’caìssimo e ella andé de sotto
 e mi ghe caié adosso, e sì ghe dié
735d’un cortelo, ch’a’gh’éa in la guaéna,
 che salté fuora, una botta ben bona
 de sora da un zenocchio, che ghe xe
 restò ’l segnale, ch’el n’è mè andò via.
 Mostrème mo, ché sarà così.
740Alzè mo su.
 SERV.
740                        Tien pur a te le mani,
 ch’io non ho alcun segnale e tu m’ha’tolto
 per altra, credi a me, stane sicuro.
 LIC.
 Non ti maravigliar, fratello mio.
 Noi siam di questo loco,
745né sappian chi tu sia,
 né quella Pava che dici.
 SGAR.
                                             Una de do:
 o che a’son vegnù matto o che a’no son
 Sgareggio o che a’sì vu qualche sperito
 vegnù chialò per farme qualche male.
 [46] FID.
750Ah, ah. Mi fa costui voglia de ridere,
 ma persevera troppo in questo umore.
 SGAR.
 No a’pagarae un dente esser a ca’, mi,
 che a’no fu mè tanto intrigò per el mondo.
 O che a’sì vu quelle che a’digo mi
755o che mi a’non son mi.
 LIC.
755                                             Esser potrebbe
 che tu non fosti tu.
 SGAR.
                                     La sarae bella!
 A’son pur mi, Sgaregio. No m’aìo
 sentù a menzonare per Sgaregio,
 frello?
 FID.
                A me pare aver ancor udito
760a nominar quel Gareglio che dici,
 ma non so se sei quello.
 SGAR.
                                              A’gera ello
 na botta, a’no sè mo se a’’n séa pi.
 A’me la vego persa.
 LIC.
                                        Oh, questa è bella!
 Perché non credi d’esser quello ch’eri?
 SGAR.
765Dasché del certo a’no sì la Barilla,
 me parona, né manco st’altra xe
 la Dina, mo gnan mi non son Sgaregio.
 SERV.
 Noi, fratel caro, lo sappiamo certo
 che non siam quelle che tu dici. Io
770ho nome Servia, nata qui in Euganea,
 e questa è la Licinia, mia compagna.
 [47] SGAR.
 Mo se la xe così, puh, la xe fatta:
 a’no son mi, mi.
 LIC.
                                   Fratel caro, a dio.
 Andiam, Fidizio.
 FID.
                                   Andiam.
 SGAR.
                    Aldì, serore.
775Serore! Ah, oh, sbio. Mo a’l’è nà via.
 Quella no xe la Dina, la n’è ella
 somegiantoghe tanto e sianto un’altra!
 An mi porae essere qualcun
 que someia Sgaregio e n’esser ello.
780A’me sento zà mo ch’a’no son mi.
 Doh, fortuna putana traitora,
 che puòto pì fare? A’te n’incago.
 Pìssame in gi vuocchi mo, co fa le rane!
 Mi per la Dina a’son vegnù chialò
785in sti pistore, qua in ste salbegure.
 Quando a’crezéa metter el besevegio
 int’el bocal dal miele, a’son restò
 col muso in seco e col manego in man.
 [48] A’ghe vuò correr drio chin ch’a’le zonzo.
790Un’altra botta qualcosa sarà.
 
 
 Atto II Scena I
 
 ERM.
 Licinia, abbiamo avuto un bel piacere
 oggi né so quando ch’avesse mai
 il maggiore e vedessi la più bella
 caccia.
 LIC.
                 Più bella ancor sarebbe stata
5se non fusse venuto quel cingiale,
 che noi posse in spavento e cani ancora;
 ma ti portasti non da fragil dona
 ma da gueriero a girlo ad affrontare
 con animo sì caldo.
 ERM.
                                       Poco è stato
10quello che ho fatto essendo alla presenza
 di che cosa maggior far mi farebbe,
 ch’è la mia cara et amata Licinia.
 LIC.
 Ermilla, io ti ringrazio
 [49] del grato animo tuo,
15e se mi s’offerisse
 occasion col tempo
 di renderti di questo ardente affetto
 d’amor la ricompensa,
 vedrai ciò che per te faria Licinia.
 ERM.
20A me sol basta che me vogli bene.
 LIC.
 Di questo sta’sicura.
 
 
 Atto II Scena II
 
 21 DRUSC.
 Oh, costoro potrano forse dirmi.
 Oh, oh, donne da bene!
 LIC.
                                              Con noi parli?
 DRUSC.
 Se voi sète da bene, con voi parlo.
 ERM.
25Che vuoi da noi?
 DRUSC.
25                                  Areste voi veduto
 uno che vo cercando già sei milla
 passi?
 LIC.
                Chi è costui che vai cercando?
 DRUSC.
 Mi son scordato il nome.
 ERM.
                                                Come vuo’tu
 che te ’l sapiamo dire?
 DRUSC.
                                            Deh, di grazia,
30dittemel, se volete, ché, s’io torno
 alla capanna senza ritrovarlo,
 il mio patron me lo metterà a conto
 [50] della cena sta sera.
 LIC.
                                              Oh, questa è bella!
 Non t’aricordi il nome di colui
35che vai cercando?
 DRUSC.
35                                  Sì, me l’aricordo,
 ma non l’ho a mente. Aiutamelo a dire.
 ERM.
 Il tuo patron non è Mangino?
 DRUSC.
                                                        O Dio,
 ma chi ve l’ha insegnato?
 ERM.
                                                 Io lo conosco.
 DRUSC.
 Era lui et un altro alla capanna
40e mi discer: ” Druscillo, vedi un poco
 se tu ritrovi... ”, e m’hanno detto il nome.
 LIC.
 È uomo o donna quello che tu cerchi
 in tanta fretta?
 DRUSC.
                               Né uomo né donna,
 credo che sia una ninfa.
 ERM.
                                              Chi è colui
45che con Mangino alla capanna possa,
 ch’ei non cura di ninfe?
 DRUSC.
 È un giovenetto tutto innamorato
 e non fa altro che sputar amore.
 LIC.
 Egli potrebb’esser Fidizio.
 ERM.
50Credi, Licinia, o lui o quel Lucenio.
 [51] DRUSC.
 E c’hai tu nome [ancor]?
 LIC.
                                                Io? Licinia.
 DRUSC.
 Se ben io mi ricordo, certo certo
 tu sei quella ch’io cerco.
 A dio, ho pur avuto gran ventura
55a trovarti.
 ERM.
55                     Bifolco, aspetta un poco.
 DRUSC.
 Aspetta ch’io vadi alla cappanna,
 che tornerò.
 ERM.
                         Ei corre come il vento.
 Potrebb’esser Lucenio
 che ti manda cercando.
 LIC.
                                             Mandi pure
60quanto ch’ei vole, indarno s’affatica.
 Ma andiamo, che costui non lo facesse
 avisato che noi qui dimoriamo
 e a trovar si venissero.
 ERM.
                                            Andiam pure.
 
 
 Atto II Scena III
 
  64 Ardenzio solo.
 
 Sorte contraria e a me sempre nemica
65ove mi guidi? Ove i miei stanchi passi
 volgi per ritrovar una ch’io credo
 ch’o morta giaccia o in altra parte sia
 tanto lunge de qui sola fuggita
 che fia vano ogni studio in ricercarla?
70[52] Qual più felice amante
 per amor fatto errante
 vive fra questi monti
 di me che con maggior sciagura mai
 rimaso del mio amor spogliato e privo?
75Ti amai, Persea gentil, con tanta fede
 ch’amor uguale al mio non fu né fia,
 e tu non già d’amor rubella in tutto
 mi ti mostrasti e non sogetta afatto,
 tepida almen tra foco e gelo posta;
80ond’io lieto vivea di dolce speme
 ripieno e in dolce foco Ardenzio ardea.
 Ma repente tempesta
 fatt’ha del mio seren turbida notte
 e in un’ora m’ha tolto
85ogni ben, ogni giogia, ogni speranza.
 Partisti, Persea, e teco ne portasti
 la luce e l’alma mia.
 Che di me donque fia?
 [53] Invan t’ho ricercata
90per tutta Euganea e fuor d’Euganea ancora,
 né mai alcun di te mi dié novella.
 Ove sei ita? Ove seguir ti deggio?
 In tanto aspro martire
 mi resta un sol conforto,
95che per compagno ho preso
 Gareglio, anch’egli in questo istesso stato,
 onde così tra noi miseramente
 il cor sfogando ne si fa men grave
 la pena, e come sono senza lui,
100parmi esser senza vita,
 se pur vita si chiama
 un continuo morire.
 Vogl’ire a ritrovarlo. Eccolo apunto
 che seco vien sospeso ragionando.
105Voglio qui ritirato udirlo un poco.
 
 
 Atto II Scena IV
 
 105 SGAR.
 Moa, le dixe che le no xe elle!
 [54] Pota, ’l è stò un bel fare de Sgaregio
 doentar ’n altro, che a’no so chi ’l séa.
 A’m’he perdù assè volte per sti buschi,
110ma m’he catò: m’adesso son perdù
 e sì no crezo pi mè de catarme.
 ’L è pur el me casseto, questo, e questi
 xe i me scofon, queste è le me braghesse.
 Moa, chi sa che qualcun non ghe l’abbie
115tolte a Sgaregio e aèrmele dò a mi?
 ARD.
 O costui burla perché m’ha veduto
 o ch’egli è diventato pazzo.
 SGAR.
                                                   O Dina,
 te no sì ela? Te no t’arecordi
 quel dì de lugio, quando el nevegava,
120che gerimo all’ombrìa de quel polazzo
 cargo de noxe, ch’un gregio cantava
 la Girometa a caval d’una zoca,
 che vegné un vento dalle calze rosse
 con la barba de stopa in cavezzon,
125[55] che ne portà mi e ti fuora del mondo?
 ARD.
 Certo che questo misero è impazzito.
 Fernetica né sa quel ch’ei ci dica.
 SGAR.
 O boari, o fradiegi, corì qua,
 vegnì zó de sti monte in gatolon!
130Vacche sgolè chialò, can e porciegi,
 bichi, cavre, molton, piegore e buò,
 e vegnìme insegnè don è Sgaregio!
 Puoh, ’l è ’n gran dire ch’el s’abbia perdù!
 Trosè cazzuole rosse, verde e zale,
135co i piè de grua, con l’ale de sgarzon,
 a cavaletto d’un grosso bigolo
 e disìme perché gh’è tante rane
 in sto paese che sapa la fava.
 ARD.
 Deh, misero Gareglio, che sciagura
140ti ha tratto fuor d’il senno?
 Voglio accostarmi a lui. Gareglio mio,
 Gareglio!
 SGAR.
                     Sta’da lunzi per to miegio,
 no me toccare, che a’son el Rezzin.
 ARD.
 Non mi conosci tu, caro Gareglio?
 [56] SGAR.
145Sta mattina sul tardi a meza notte
 la luna coréa drio su una barella
 a un lievore vestio da pescaore,
 e perché una cigala con un fiauto
 de sparpanazzi fatti alla toesca
150ghe aéa tratto co una vanga un vereton...
 Dìme ti, caro frello, che vol dire
 che chialò gh’è pi becchi che molton?
 ARD.
 O Dei, come di me gioco prendete!
 Alcun da Persea in poi non mi è più caro
155di Gareglio, or non so per qual cagione
 privo sia di ragione.
 Eh, destati oggimai,
 non riconosci Ardenzio, tuo patrone?
 SGAR.
 “ Dodese al soldo le castegne buse!
160A baluochi, a branchè! Puh, le ghe manca! ”,
 criava sta mattina un russignolo
 [57] int’un boccale fodrò de terliso,
 e se la pioza no scotava tanto
 le crosete buttava un staro e mezo
165e la Dina criava d’un salgaro:
 “ Totte via, totte via che vien el lovo! ”,
 tanto ch’el vin dié volta int’el tinazo.
 An, che vol dire ti, che t’iè dottore,
 che l’aseno, che g’ha tondo ’l buelo,
170per usanza si caga strunzi quadri?
 ARD.
 Eh, Gareglio!
 SGAR.
                            Ah ah ah, la xe stò bela!
 Ho crezù cazzar man al me cortelo
 e ’l manego si m’è restò in le man
 e la mela è cazò inte la guaèna.
175Te me l’è messo storto, aspieta, aspieta!
 ARD.
 Corre dietro a un ucelo. O me infelice,
 vivo rimaso in questo ciecco orrore,
 acciò di doglia essempio
 unico al mondo sia!
180O Persea, Persea! E del mio patrio nido
 per lei mi vivo peregrino amante
 [58] né pur altro ristoro
 ch’el mio Gareglio avea!
 Or me l’han tolto i Fatti.
185Morto non è, ma l’esser suo infilice
 di morte invidia il più tranquillo stato,
 stato di questo più felice.
 Io so che solo Amore
 cagiona questo errore.
190Deh, Amor, che t’ho fatt’io che sì m’affligi?
 Se i servi tuoi sì crudelmente offendi,
 come tratti i nemici?
 Deh, misero Gareglio, hor che farai?
 Preda di lupi al fin pazzo ti vedo.
195Non voglia il Ciel che in questo strano caso,
 mio fidel, t’abbandoni.
 Voglio cercar a mio poter rimedio
 per aiutarti, e se trovar no ’l posso,
 sì come inanti io fui non tuo patrone
200[59] ma tuo caro compagno,
 esser ora ti voglio
 in questa sorte ria compagno eterno.
 
 
 Atto II Scena V
 
 202 DRUSC.
 O’sono?
 LUC.
                   Ove?
 DRUSC.
              Su questo prato.
 MANG.
 Non ti diss’io che veniremo invano?
 DRUSC.
205O donne, u’sète gite e v’ascondete?
 Avete il torto, siamo pur amici.
 Voi dite d’aspettarmi e poi partite.
 LUC.
 Con chi parli, Druscillo?
 DRUSC.
                                               Con le ninfe.
 MANC.
 U’sono?
 DRUSC.
                   Eh, devon esser gite altrove.
210Disseno d’aspettarmi e ch’io coressi
 presto a chiamarti.
 LUC.
                                      A chiamarmi?
 DRUSC.
                              Il patrone,
 dico, e non te, bel fusto,
 ch’una di quelle ninfe
 dice che gl’è Mangino la sua vita.
 MANG.
215Io?
 DRUSC.
215         Tu. Credi, io so pur che sei Mangino,
 che quella bella ha detto che le fai
 l’amore e mai tu non la lasci stare.
 [60] LUC.
 Ah, Mangino, così tu mi tradissi?
 Questi sono i consigli tanto caldi
220che m’astringeano a lasciar star Licinia?
 Queste son le preghiere? A questo modo
 se tradiscon gl’amici?
 MANG.
                                          Che parole
 sono queste, Lucenio? Che ragioni?
 M’hai tu per uom di così poca fede?
225Non sai s’io fugo a più potere Amore?
 Eh, che mi meraviglio? Tu non vedi
 che questo pazzo non sa quel che dica?
 LUC.
 Per bocca delli pazzi spesse fiate
 si scuopron cose a meraviglia vere.
230E vuoi ch’ei l’abbia imaginato?
 MANG.
 Vieni qua tu, Druscillo. E c’hanno detto
 quelle ninfe?
 DRUSC.
                           Non so, non mi recordo,
 è tanto tempo.
 MANG.
                              Dimmi sciagurato,
 che dici che Licinia ha detto?
 DRUSC.
                                                        Ch’ella
235è innamorata in lui e che tu un giorno,
 mentr’eri alla capanna con un altro
 che non eri già tu, che ti conosce,
 [61] l’andavate cercando con Mangino
 sua vita. A punto a punto mi ricordo
240com’hanno detto.
 MANG.
240                                  Oh, il lupo se ne pasca!
 Hai tu inteso di tutto quel c’ha detto
 quel ch’ei si voglia dire?
 LUC.
                                               Ho ben inteso
 troppo quel chei vol dire. A me, Mangino,
 tradirmi a questo modo?
 MANG.
                                                Io non fu’mai
245traditore, Lucenio, e se da questo
 pazzo la verità si può cavare,
 so che fedele et innocente sono.
 LUC.
 Infedele e nocente, tu vuoi dire.
 Vien qui, Druscillo, svegliati. Racconta
250come ti disce quella bella ninfa.
 DRUSC.
 Io la trovi che stava ragionando
 con un’altra persona a brazzacollo.
 LUC.
 A bracciacollo? Era quell’altra donna?
 DRUSC.
 Non era donna no.
 LUC.
                                     Ohimè, che era?
 MANG.
255Oh, scopremi qualche peggior novella
 più vera della prima!
 LUC.
                                          Conocesti
 chi era quel che con lei ragionava?
 DRUSC.
 Non io. Ma a fe’che avea un bel visetto
 [62] da far l’amore con la dea Mercurio.
 LUC.
260Ohimé infelice, e chi esser può costui?
 Che fece quando le sopragiongesti?
 Ti disser nulla?
 DRUSC.
                               Sì.
 LUC.
         Che?
 DRUSC.
             Nulla.
 LUC.
               Come?
 Dicevi tante cose che t’ha detto!
 DRUSC.
 Oh, piano. Il primo fui che le parlai.
 LUC.
265Che le dicesti?
 DRUSC.
265                             Oh, non le seppi dire.
 Le dimandai se s’avea veduta.
 LUC.
 Se s’avea veduta? O come dunque
 la conoscevi?
 DRUSC.
                           È più di dodeci anni...
 LUC.
 Dodici anni?
 DRUSC.
                           ... ch’io sto col mio patrone.
270Non vuoi ch’io la conosca?
 LUC.
 Che ha a fare il tuo patrone con Licinia,
 che due anni non sono
 ch’in questo cole alberga?
 MANG.
 Lucenio, non t’accorgi che costui
275è pazzo e non ragiona in seno mai?
 DRUSC.
 Non mi vide si tosto che mi disse:
 “ Non stai tu con Mangino? ”. Io le risposi
 de sì.
 LUC.
              Vedi, Mangino, s’egli sempre
 [63] sta s’un medesmo detto?
 MANG.
                                                         Ancora sei
280su questo umore e ti becchi il cervello?
 LUC.
 M’ho heccato il cervello a confidarmi
 di te, ma verà tempo
 che ti dorrai d’avermi fatto torto.
 MANG.
 Come tu trovi ch’io non sol con fatti
285ma men con le parole t’abbi offeso,
 piglia di me quella crudel vendetta
 ch’in crudo petto imaginar si possa.
 LUC.
 Segui, Druscillo, il tuo ragionamento
 insin al fine.
 DRUSC.
                          E mi dissero poi
290che eri tu che con quell’altro oggi
 da Mangino menasti la campana
 che mandavan le ninfe per cercarmi.
 MANG.
 Deh, non ti affaticar, caro Lucenio,
 che tutt’oggi con lui ragionerai
295né mai saprai quel ch’ei si voglia dire.
 LUC.
 Mangino, da costui saper non posso
 quel ch’io vorrei, ma ben son per saperlo
 [64] innanti che da noi si parta il sole.
 MANG.
 Se mai mi trovi in fallo, eccomi pronto
300al suplizio. Tu sei di ciò cagione,
 che non so che mi tenga, giotto!
 DRUSC.
                                                            Tu hai
 torto, che, s’io non son tanto da bene
 quanto qualchedun altro...
 MANG.
                                                  Andiamo, sciocco,
 ch’io vo’che alla capanna mi racconti
305meglio l’intrico in cui oggi m’hai posto.
 DRUSC.
 Basta, non voglio mai più ragionare,
 che dici ch’io son pazzo.
 MANG.
                                              Andian, che fai?
 DRUSC.
 M’era incordato un nervo. Avea paura
 di restar ritto ritto.
 
 
 Atto II Scena VI
 
  309 Veletria sola.
 
310Empio tiranno Amor privo d’amore,
 com’a tanto mio mal, crudo, consenti?
 Perché dell’arder mio ti pasci e vivi?
 Non ti basta, crudel, l’averme in mille
 ferite aperto e trapassato il core,
315[65] che novo incendio in me misera desti?
 Non era il tuo voler contento apieno
 ch’io seguissi chi m’odia e chi mi fugge,
 se per far via maggiore
 al mio fiero dolore
320del mio caro pastor quella Licinia
 non accendevi e forse lui di lei?
 Non era nel mio petto tanto foco
 di concenti sospiri che bastasse
 in breve spazio in cenere ridurmi?
325Ma tu che ’l mio morir non ti contenta
 quell’amorosa fiamma
 con un gellato gello allenti e spegni,
 ond’amor m’arde e gelosia m’aghiaccia.
 Resisti a tanto male,
330misera vita frale,
 e renditi sicura
 che questa mano sola
 è per farti cangiar stato e ventura.
 Ma eccolo, il crudel. Come ne viene
335[66] sdegnoso. Voglio far l’ultima prova.
 
 
 Atto II Scena VII
 
 335 VEL.
 Ferma, pastor crudel, l’erante piede,
 e se pietate in petto umano alberga,
 col rotar di duo chiari ardenti lumi
 rasserena la fronte e l’aria intorno
340tranquilla rendi ad asoltarmi intento.
 FID.
 Fermo, ninfa leggiadra, a questi accenti
 il frettoloso passo e men crudele
 di quel che tu ti pensi ora t’ascolto.
 VEL.
 So che, s’el foco mio come dentr’arde
345fuori apparisse, non faria bisogno
 che del mio grande ardor fede facessi,
 perché non tu, perché mi sei vicino,
 la mia fiamma vedresti ardente e fiera
 ch’ogn’altro foco furibondo avanza,
350ma i più remotti ch’in Euganea
 fossero, riscaldati, arsi e destrutti
 [67] dal tanto mio calor le verdi spoglie
 di primavera deporiano in tutto
 e diveriano un cieco orrido verno.
355Ma tu più duro, ahimè, d’ogni aspro monte
 meco ragioni e ’l foco piì m’accende
 e dalla fiamma intatto in tutto resti.
 Ma se pur del mio male, ingrato, godi
 e se del mio morir sei tanto vago,
360fammi almen tanta grazia, fa’ch’io mora
 per le tue mani, acciò felice io vada
 in Stigie, e lieta ad aspettarmi attendi.
 Tu non rispondi? A che tanti sospiri?
 Scaccia, ben mio, da te quel fredo gello
365di cui armato il crudel petto porti.
 Vinca pietade omai cotanta guerra,
 onde abbian fine i tanti miei tormenti
 e lieta goda il ben, che tanto tempo
 sospirando, piangendo, adoro e bramo.
 FID.
370Più m’affligge il tuo mal, leggiadra ninfa,
 ch’el mio, se punto a un miser si dà fede.
 [68] Vedo, Veletria, il foco che ti strugge.
 Mi pungon tanto il cor questi sospiri
 che più tosto vorrei di vita privo
375esser che non potere auto darti.
 Pugnano al tuo bisogno Amor, Natura,
 le Stelle, la Fortuna, i Fatti e ’l Cielo.
 Se contra questi un misero pastore
 può contrastar, eccomi dunque pronto
380per far quel ch’io non posso et a te piace.
 Amor m’ingana, Natura mi sforza,
 congiuran contra me Pianeti e Stelle,
 mi condanano i Fatti e la Fortuna
 e si rischiara a’miei sospiri il Cielo.
385Se potessi, io vorrei, ma non potendo
 causa ’l poter che volendo io non posso.
 VEL.
 Deh, dimmi perché così mi fuggi
 e segui a più potere
 chi non ti vol vedere,
390dico quell’altra, Ermilla?
 [69] FID.
 Quando che l’esser mio, ninfa, saprai,
 la cagion perch’io seguo e perch’io fuggo,
 forse m’iscuserai dove m’accusi.
 VEL.
 Sì ch’altra scusa tu pigliar non puoi
395se non ch’Amor ti tiene
 preso in altre catene?
 Io, se credessi ch’a’tuoi prieghi mai
 Ermilla si piegasse, lascierei
 che di lei ti godesti, ma son certa
400più che la seguirai
 che tanto più sarà pronta a fuggirti.
 FID.
 Se la cagion de’tanti miei martiri
 non derivasse d’altri che da Ermilla,
 Veletria mia, già tutto tuo sarrei.
 VEL.
405Perché dunque la segui se non l’ami?
 FID.
 Non sai, s’alcun pastor si trova acceso
 di bella ninfa, ch’ei veder la tenta
 più ch’egli può?
 VEL.
                                Or non è questo il [...]\
 FID.
 E se privo è ’l meschin della sua vista,
410cerca con il coltello in qualche scorza
 o in qualche bella pietra
 [70] ritrarla e ogn’ora innanti se la tiene?
 Trovami in questi boschi una sol pianta
 ch’entro non abbia o nota o nome o rima
415o qualche bel ritrato
 o di ninfa leggiadra o di pastore.
 VEL.
 Ben, che vuoi tu inferir?
 FID.
                                               Ch’Ermilla è un vivo
 ritratto di che il cor m’arde e possiede,
 onde vedendo lei me sono innanti
420quelle bellezze che già tanti mesi
 mi fa peregrinar per boschi e monti.
 Onde non ti ammirar se per vedere
 il ritratto d’Amor Ermilla seguo.
 VEL.
 E tanto maggiormente se non l’ami
425ché non rivolgi il core
 al mio fedel amore?
 FID.
                                       Tanto del Cielo ognor più mi lamento
 quanto ei mi priva che goder non posso
 quel ben che tua mercè mi vien offerto.
 Riman felice.
 VEL.
                            Va’, che prego i Dei
430[71] che ti faccian cortese come bello.
 Ma ché qui senza te sola rimango?
 Non già, che parmi ’l giorno
 di tenebroso orror, di cieca notte
 per lo partir del mio lucente sole
435oscurato d’intorno.
 
 
 Atto II Scena VIII
 
 436 SGAR.
 No te t’inganni, vì, la xe pur ela.
 A’te g’he pur chiapò! Vien chì. Don vèto?
 VEL.
 Non voglio stare a descrizion de’pazzi.
 SGAR.
 Pigia, pigia ’l buzzò, se ’l è anà via!
440Ghe n’hei fatto un marchetto? Poh, l’è bella!
 Tutti me ten per matto, tutti scampa,
 ma i vogio ben così. Poh, ’l me va ben
 la giotonìa ch’a’m’he pensò tra mi.
 El fo zà tempo, co i dixéa: ” Villan,
445puh uh, zoco, menchion ”, che no saéa
 se un chiò se desse ficar per la ponta
 o per la capella.
 [72] Mo n’ha valesto pi sta garbinella,
 che a’me he pensò, che quante giotonì
450fé mè Garbugio, Garbinello o Truffa.
 Tuogie mo quî che fa le bagatelle,
 che Sgaregio ghe vole cagare int’i
 bussoli! Mo fenzanto così el mato,
 negun se schiverà del fatto me
455e mi narò spianto in qua e in là.
 A’caterè la Dina, la Barila
 a sto muò, ché, se a’fosse un buon celibrio,
 le no se aerae mai pandù con mi.
 A’saerò se le xe innamorè.
460Puh uh, tutti i sacchetti sarà me.
 Viva Sgaregio! Pian, che a’sento zente.
 A’torno matto. E un e du e tri...
 
 
 Atto II Scena IX
 
 [73] 463 LIC.
 Non è quello Gareglio, Servia?
 SERV.
                                                          È lui.
 LIC.
 Adio, compagno. Sei di quel umore
465che eri già un pezzo fa?
 SGAR.
465                                            Ho vento mi
 che a’g’ho saltò pi in là.
 SERV.
                                              Ei ti risponde
 a proposito certo!
 LIC.
                                   O valent’uomo,
 non mi conosci?
 SGAR.
                                 Mo la sarae bella
 se a’no me volì dare quel c’ho vento!
470Vegnì tutti vu diese contra mi.
 LIC.
 Piano, che siamo amici.
 SGAR.
                                              S’aon zugò
 che ai diese de zenaro le ceriese
 trà de balestra per mazzar i cucchi,
 chi vuol magnar l’agià zó d’i pagiari?
475Che volìo star a dir che le gazzuole
 porta la corazina?
 LIC.
                                   Oh, questa è bella!
 SERV.
 Costui è pazzo certo. Questo è quello
 ch’Ardenzio si lagnava ch’el suo servo
 era impazzito.
 LIC.
                             Sarà vero questo,
480o Gareglio?
 SGAR.
480                       Ho vezù à fa un pezzato
 una cavra sentà s’un gran de megio
 que sonava de piva con la coa,
 [74] e perqué na formiga co un spento
 gh’aéa stropò el buso delle vintiun’ora,
485la tré un stranuo si grande con le neghe
 che sta mattina el sole ha fatto festa
 e si ha sarò ’l balcon ch’el no laora.
 LIC.
 O gran sciagura!
 SERV.
                                 O povero Gareglio,
 siam pur di questo mal state cagione!
 LIC.
490Vedi che atti fa fora d’ogni uso?
 Gli voglio dimandare se conosce
 la Carila e la Dina.
 SERV.
                                     O sì, de grazia.
 LIC.
 O Gareglio mio caro, non conosci
 la tua padrona e la tua cara Dina?
 SGAR.
495Barba Polo Sbrenzon si fo so pare
 della mea de me nona de to frello
 che scapava le noxe con le ongie.
 An, saeséu comuò se vende i fighi
 da Camisan? Se dagi a lombro o a peso?
500A la lira sottile o al peso grosso?
 [75] LIC.
 Egl’è spedito.
 SERV.
                            Noi la colpa abbiamo.
 LIC.
 S’io m’avessi pensato che la cosa
 venir dovesse a questo tristo fine,
 m’arrei scoperta a lui.
 SERV.
505Gareglio, apri un po’gl’occhi:
 io son la Dina. Destati dal sono!
 SGAR.
 Somenanto iersera a son de lira
 un quartiero de gambari su i cupi,
 el vegne una tempesta de susini
510e sì me sbusé tutte le braghesse,
 e s’un me frello no se sdessïava,
 la gatta arae magnò tutto ’l formagio.
 SERV.
 Deh, come, Amor, è tua possanza estrema!
 Spregia, Licinia, Amor. Non vedi come
515fa passegiar Gareglio?
 LIC.
 Deh, non t’avess’io mai
 più tosto conosciuto!
 Quest’è, misero, stata la mercede
 del tuo fedel servire.
 SERV.
520Sapeva ben che mi voleva bene
 [76] ma non già tanto.
 SGAR.
                                            Ah ah ah! Mo vì
 lialò na mosca con na lanza in resta
 a caval d’una rana che scombate
 co un ragno ch’è montò su na senzala.
525Mazzève, valent’uomeni, mazzève!
 Ah, poltronzon, te scampi? Pigia! Maza!
 LIC.
 Ei corre e temo che di qualche balza
 non cada in qualche fiu me.
 SERV.
 Non può far altrimenti che guidato
530dalla pazzia non corra in qualche male.
 LIC.
 Deh, quanto pagheri’poterlo aitare!
 SERV.
 Il meglio che per lui far noi possiamo
 è ritrovar Ardenzio suo patrone
 e far ch’egli lo leghi fin che questo
535umor gl’esca del capo.
 LIC.
535                                          Parli bene.
 Andiam, che per mia fe’ne ho tal dolore
 ch’io mi sento morir se non si aiuta.
 SERV.
 Anch’io, che sempre gl’ho voluto bene.
 
 
 Atto II Scena X
 
 [77] 539 Ermilla sola.
 
 Sei pur, misero Ortigio, chiaro e certo
540che la tua cruda e perfida Carilla,
 o per dir meglio la non tua Licinia,
 quella che tante miglia per fuggirti
 ha fatto, ad altro amore
 ha già rivolto il core!
545Quella ch’in castità vincea Diana
 or per un vile e rozzo pastorello
 si strugge et ei di lei par che non curi.
 Merti ben questo e peggio, ingrata donna.
 Donna non già, ma tigre
550in fra le selve nata.
 Dirò ch’Amor non è quel vero dio
 ch’egl’esser suole, se le mie vendette
 non fa con crude et amorose piaghe.
 Piglia il foco, Signor, i tuoi strali,
555aprili il petto e l’indurato core,
 [78] nella tua schiera aggiungi,
 che più triunfal preda e perigliosa
 di questa il tuo valor far non potria,
 e di quanti trofei, ch’el tuo bel carro
560fanno adorno e superbo, sarà questo
 a te più glorïoso et onorato.
 Vinto hai Carilla, la più cruda et empia
 donna che stata sii sotto la luna.
 O miracol d’Amor sol per mio male!
565Carila lascia la sua dolce patria
 sol per fuggirmi e nella bella Euganea
 fermato il piede per alquanto tempo
 di Fidizio pastor, lasso, s’accende.
 Servite, amanti ad allacciarvi pronti,
570donne di questa sorte mesi et anni,
 ch’invece di mercedi al servir vostro
 ad un altro amator daranci in preda,
 e fìavi in questo caso Ortigio essempio.
 [79] Ingrato sesso, crudo e senza fede,
575ch’il ben veloce fugge e ’l suo mal segue.
 Ma più cruda, più ingrata e senza fede
 e più fiera di quante il sol già mai
 vegga è l’altra d’Amor nemica e ria.
 Ma vuo’Carilla omai ch’altera vadi
580de la mia morte.
 
 
 Atto II Scena XI
 
 580 ARD.
 I Dei faccianti lieta,
 leggiadra ninfa.
 ERM.
                                Ardenzio, ben venuto.
 Che vai facendo?
 ARD.
                                  Arresti tu veduto
 il mio bifolco, il povero Gareglio,
585ch’è divenuo pazzo?
 ERM.
585                                      Che Gareglio?
 ARD.
 Un bifolco, il più caro che già mai
 io abbia avuto o sia mai per avere:
 innamorato, astuto, diligente,
 di patria Padovano.
 ERM.
                                       Ahimè, di dove?
 ARD.
590Da Padoa egli m’ha detto.
 ERM.
590                                                Ohimè, mi sento
 tutta mancar.
 ARD.
                            Ermilla, che t’è occorso
 [80] c’hai di candida neve il volto tinto?
 ERM.
 Nulla, m’era pigliata...
 ARD.
                                           Sei smarita.
 ERM.
 ... una doglia nel core.
 ARD.
                                          Io ti so dire
595che le vermiglie rose son fuggite
 da le tue belle guancie.
 ERM.
                                            La cagione
 perch’impazzito sia tu non lo sai?
 ARD.
 Credo che per amore.
 ERM.
                                          Ahi, meschinello!
 Come lo sai?
 ARD.
                           Perché la prima volta
600ch’io ’l vidi ragionar fuor di se stesso
 tra sé così dicea:
 “ Dunque non sei la Dina? Ella non sei? ”,
 e contrastava sopra questo nome
 spesso dicendo: ” So pur che sei dessa ”.
605E mi è venuto a mente ch’ei mi disse
 ch’egli era nella patria innamorato
 in una donna ch’avea questo nome
 e ch’ella era fuggita con un’altra
 giovane sua patrona, né saputo
610[81] s’era già mai dov’ella fusse gita.
 ERM.
 Non ti raccontò egli la cagione
 della sua fuga?
 ARD.
                              Sì, per non pigliare
 un suo fedel amante per marito,
 ch’Ortigio nome avea, s’io mi ricordo.
 ERM.
615Ahimè, ch’el cor scoppiar, lassa, mi sento!
 Ortigio egli avea nome?
 ARD.
                                              Ortigio parmi
 che mi dicesse, e che l’avea seguita
 più di tre anni et ella ogn’or più dura
 s’era mostrata a’suoi pietosi preghi,
620ond’alla fin, per non l’aver inanti
 agl’occhi, con la fante era fuggita
 et era questa tanto
 dal mio Gareglio amata.
 ERM.
 O caso memmorando, ch’in un core
625di donna tanta crudeltà regnasse!
 Che venne poi de quel misero amante?
 ARD.
 Non so, perché non sì tosto fuggiro
 che per trovarle il povero Gareglio
 si partì dalla patria.
 ERM.
                                       E quivi venne?
 [82] ARD.
630Dopo’d’aver per tutto ’l mondo errato
 qui capitò in Euganea e qui per servo
 già poco fa lo presi.
 Or sì miseramente l’ho perduto.
 ERM.
 Tanto va l’edra o vite, che non abbia
635ove appogiarsi e al ciel lieta salire,
 quanto un amante senza un fedel servo
 con cui ogni pensier confidar possa
 e del suo foco a lui la fiamma aprire;
 però s’el caso suo spietato et empio
640t’affligge ’l cor, non me ne meraviglio
 anzi teco il tuo duol sospiro e piango.
 ARD.
 Non è questo il maggior de’miei martiri,
 leggiadra ninfa, ancor che grave sia;
 ma s’io ti palessassi i dolor miei,
645non tu che donna sei vaga e gentile,
 l’esser mio piangeresti,
 ma qual più cruda fera
 nutre l’Euganea altera
 [83] meco pietosa piangeria ’l mio male.
 ERM.
650Ardenzio, se le piante e sterpi e sassi,
 i coli, le fontane, i rivi, i prati
 d’eco fosser ripieni e rispondenti,
 altro non s’udiria che risonare
 per l’aria i gravi miei duri lamenti.
 ARD.
655Ben saria duro il cor ch’a’tuoi sospiri,
 a le lagrime tue non si piegasse!
 Ben fia di ferro cinto
 e di duro diamante!
 Io per me leverei le mani al cielo
660ch’una donna qual tu, bella e gentile,
 non solamente cotanto mi amasse
 ma si degnasse esser da me servita.
 Paionsi quei begl’occhi e quelle guancie
 d’esser spregiati? Ohimè, chi fia quel empio,
665uomo non già ma qualche orrendo mostro?
 ERM.
 Sì come, Ardenzio, ai tuoi dolci sospiri
 a tue grate parole, a tuo bel viso,
 a la tua leggiadria trovi contrasto,
 [84] così ritrovo anch’io, misera, e peggio.
670Non val bellezza, leggiadria virtute
 contra forze d’Amor, perché egli è cieco.
 ARD.
 Di quanti regon or corrone or setri
 non v’è signor più crudo
 d’Amor; e quante leggi oggi dì sono
675fur fatte sol per conservar il mondo
 e la legge d’Amor distrugge il tutto.
 ERM.
 Mai non ebbi da lui punto di tregua
 a la mia guerra e men spero d’averla.
 Facciami peggio pur che far mi possa,
680se pur peggio può far di quel che face.
 Riman felice e ’l tuo dolor contempla
 con la mia penna e lo farai men grave.
 ARD.
 Va’, ch’el Ciel sia propizio a’tuoi desiri.
 Quando sarete, o stelle empie e maligne,
685sazie d’oprare in me con tanti mali?
 [85] Quando in tante tempeste
 se mostrerà per me sereno il cielo?
 Deh, fia l’ultimo dì della mia vita,
 acciò ch’io possa dire
690almen nel mio morire
 d’aver goduto un dì fausto e sereno
 e con quel aver chiusi eternamente
 quest’occhi miei dolenti.
 
 
 Atto III Scena I
 
 MARZ.
 A me par cosa fuori di natura,
 peggio che se parlasser gl’animali,
 che Mangino sia ora innamorato.
 LUC.
 Deh, Marzio mio, non ti maravigliare,
5questi son d’i miracoli d’Amore.
 MARZ.
 Mangino è acceso di Licinia!
 LUC.
                                                      Acceso!
 MARZ.
 Se questo è vero, io voglio tor di patto
 gir tutto questo inverno scalzo e nudo.
 Mangino, che a’suoi dì non guardò mai
10[86] donna nel viso, or in età matura
 sarà fatto di donna e d’Amor schiavo?
 Quante fiamme già mai
 Vulcan, Lipari od Isca,
 Stromboli o Mongibello trasser fuori,
15non sarian atte a riscaldarli il core.
 LUC.
 Deh, Marzio, sola una scintilla sola
 delle face d’Amor infiamma et arde
 più che non fa quel foco,
 onde encelando al ciel la fiamma inalza.
20Non sai tu ben ch’in secco arido legno
 poca favilla ardente foco accende?
 MARZ.
 Padron, non arde assai più facilmente
 lauro o genebro verde ch’altro legno
 arido e secco? Voi giovani sète,
25benché robusti e verdi, atti alla fiamma;
 ma così com’in voi tosto si accende,
 come in palustre scorza
 così tosto s’ammorza.
 [87] LUC.
 O tu sei sciocco a dir che ne l’amore
30abbia matura età maggior fermezza.
 Ben facilmente più si accende un vecchio,
 ché, s’ei mirar da qualche bella donna
 si vede, come quel ch’è disusato
 all’amoroso foco e c’ha già fatto
35su le vermiglie e colorite guancie,
 ch’erano in gioventù coperte d’oro,
 odiosi fiocchi di candida neve,
 li par quasi miracol de natura
 esser da donna vagheggiato e amato;
40onde presto s’allaccia e s’innamora,
 ma poco dura in lui fiamma amorosa.
 MARZ.
 Poco? Anzi assai, ché, s’egli è vero quello
 c’hai detto tu, che se le paia strano
 esser amato, egli dê far ogn’opra
45per mantenersi in grazia alla sua donna,
 perché sa ben che privo dell’amore,
 che fortuna o destin le pose inanti,
 non è più per trovarsi altro partito.
 [88] LUC.
 Non si tosto egli il dolce frutto ha colto
50che, come quel che si conosce indegno
 di grazia così rara, divien tosto
 del celato furor publica tromba;
 poi gelosia, timor l’assale e preme,
 crede che non alberghi amore o fede
55in cor di donna e da se stesso prende
 l’essempio; onde di lor quel conto tiene
 ch’el superbo falcon fa della preda,
 che non sì tosto presa
 infastidito a gl’altri augei la lascia.
 MARZ.
60Tant’in voi dura un’amorosa voglia
 quanto vermiglia rosa che al spuntare
 dell’alba spieghi al ciel le belle foglie,
 che non sì tosto è dipartito il sole
 ch’ella percossa da lieve rugiada
65lascia delle sue foglie il fusto privo.
 [89] Povere donne, ch’a la vostra etade,
 il vostro amor e la bellezza vostra,
 ai vostri finti e simulati sguardi,
 a le vostre preghiere e falsi pianti
70si fan sogette, né sì tosto avete
 il vostro gran desio condoto a fine
 che ad un novello amor volgete il core!
 Né tanto move il vento lieve foglia,
 né così vola augel di fronda in fronda
75quanto in cor giovenil si muta voglia.
 LUC.
 Un bel cor giovenil ad ogni affanno,
 ad ogni passion forte resiste,
 serve col cor pien di vivace ardore
 e giorno e note ad altro mai non pensa
80che a la beltà che lo mantiene in vita,
 come, misero me, dal dì ch’io vidi
 il mio bel sol, che Euganea altera rende,
 sempre in lui miro fisso
 il ben del paradiso,
85né mi sazio o mi stanco,
 [90] anzi quanto più m’arde e mi ferisce
 io li rivolgo il fianco.
 Che vuoi tu por i dolci e cari affetti
 d’un giovene gentile
90e gl’amorosi sguardi,
 le parole ch’il cor mostrano aperto,
 i cocenti sospiri atti a piegare
 ogni più cruda et arrabbiata tigre,
 con uom ch’abbi a l’occaso il camin volto,
95in cui l’astuzia sol, l’ingegno e l’arte
 son guida nell’amare?
 MARZ.
                                           E come dunque
 vuoi che Licinia, che te giovanetto
 spregia non solamente mai pigliasse
 Mangino, ma neanche lo guardasse?
 LUC.
100Perché soglion le donne di natura
 sempre pigliarsi al peggio.
 MARZ.
                                                   Scaccia via,
 Lucenio, questo umor ch’el tuo Mangino
 ti sia rivale e al tuo fedel lo credi
 [91] e non voler a quel pazzo dar fede,
105che ti so dir che ti lamenti a torto
 d’un tuo fedel amico.
 LUC.
                                         O a torto o a dritto
 io me ne chiarirò. Camina, andiamo.
 MARZ.
 Io vengo. Oh, prego i Dei che questo umore
 del mio padron non ci riesca in male.
 
 
 Atto III Scena II
 
  109 Fidizio solo.
 
110Già che la mia fortuna
 dopo tanto vagar, tante fatiche
 non mi volge la fronte, anzi più avversa,
 più contraria si mostra a’miei desiri,
 che far, lassa, mi deggio?
 
 
 Atto III Scena III
 
 114 SGAR.
115Que cancaro zamberla
 questù qua da so posta? A’vuò star cito
 per sentir quel ch’el dise.
 FID.
                                                 Eh, Ortigio mio,
 ove t’ascondi? Ove per ritrovarti
 la tua misera amante
120[92] deve volgier le piante?
 In qual parte del mondo, o mio bel sole,
 de’raggi tuoi lucenti
 rendi ricche le genti?
 Deh, che s’in qui t’avrei certo trovato,
125se trattenuta io non m’avessi tanto
 in questi coli per veder Ermilla,
 che così t’assomiglia!
 SGAR.
                                         O che a’son matto
 da seno o che questù xe matto ello
 o che questa è na tega senza grani.
 FID.
130Deh, Ardenzio, quanto invan per me t’affligi
 e meco ognor di me spesso ragioni,
 né pur mi riconosci, e mi dimandi
 s’io certa Persea in questi colli avessi
 veduta o se giamai l’ho conosciuta!
135Io di no ti rispondo e a pena tengo
 il riso.
 SGAR.
               Oh, s’te me oseli pi, me dano!
 Èla stà mo vizzià sta scroetta?
 [93] FID.
 Voglio dunque lasciar queste pendici
 già ch’el seguir Ermilla è un sogno, un fumo,
140e girmene cercando in questa e in quella
 parte quel ben che con mio mal procuro.
 Chi sa che non lo trovi. Oh, che ad Amore
 ogni cosa è palese et ogni impresa
 quant’è difficil più tant’è più bella!
 SGAR.
145“ Te no te partirè, se a’no m’ingano,
 senza pagar el nolo del cavalo.
 Taritontela, tarandan dandella ”.
 A le tre coto e una lipa e là.
 Te no respondi?
 FID.
                                 Oh, questo è quel bifolco
150d’Ardenzio, ch’è impazzito, e di che sorte
 è pazzo!
 SGAR.
                  Orsù, fàla, che mi starè
 de sora. Lipa a portarse a cavalo
 chi vence, veh, che a’non crian dapo’.
 FID.
 Gioca pur da tua posta,
155ch’io non intendo così strano gioco.
 SGAR.
 No l’è bona da intender. Fa’conto
 che du porciegi e una vaca sia tri,
 che comprava al mercò luzzi in agresta
 [94] int’una barca coverta de verze
160e perché ’l vento me tirava a l’orza
 el fo forza cavarme le scarpette
 e dar le tenche frite diese al soldo.
 FID.
 Ah ah, non ebbi mai simil solazzo!
 SGAR.
 Solazzo? Pian, che te n’iè ancora a ca’.
 FID.
165O pastorello, ccme ti dimandi?
 SGAR.
 No m’è stà ditto niente. Puh, ’l è assè!
 In fin sto mazo la fé du cagnuoli,
 che a’strapiantava pori su la Brenta
 a son de granceole senza pelo,
170e cercanto andar dretto in caveagna
 el se rompé el gomiero sul pi bello
 e an mi de fatto el me tiré inte l’acqua.
 FID.
 Costui non parla in preposito mai.
 Oh, come sta insensato e par che pensi!
175Di’, ch’è del tuo patron?
 SGAR.
175                                             ’L è massa fredo,
 le legne è care, el pan muzza da mi,
 la fame incalza, le buele cria.
 Senti co a’son leziero!
 FID.
                                           Scendi, pazzo,
 [95] pensi che asino sia?
 SGAR.
                                                A’l’ho pagò
180ch el no me manderà la tansa a ca’
 quando ch’a gera pezzenina cosa.
 FID.
 Rimanti pur con questa tua pazzia,
 vuo’fuggir il periglio.
 SGAR.
                                          Ohi, aldi
 una imbassà da parte d’un salgaro.
185Vié chì. La corre che la nar una sita.
 Potta, mo questa è na garbinella!
 Poh, mo que intrigo che a’destrigo ancuò!
 Mo n’è questa la Persa che ’l paron
 la va cercando e sì la g’ha int’i gi uocchi?
190Oh, te possa vegner el mal drean,
 dasché te sì vestia con le braghesse!
 No somégela un de sti pistore,
 uno de sti zoenati? L’è vegnua,
 questié, cercanto un c’ha nome Ortigo,
195casì che ’l è quelù che dunïava
 la me parona a Pava, che anca ello
 dê esser incapitò per ste montagne,
 e questié si ghe dê esser infrisà
 e sì el cerca così vestia da toso
200[96] per no dare in le man del me paron.
 Poh, co ’l lo sapia, el cagherà per tutto
 d’aslegrazion! O Sgaregio valente,
 fate anore sta bota e po no pi!
 Sóngio stò un valentomo a catar questa,
205e an la Dina con la me parona?
 Besogna mo che a’mete ’l pezzo a segno,
 ché, s’a’falo la brocca, aon spigò,
 o che a’struoliche ben qualche noela
 per far ch’el me paron reste contento
210de la so Persa e mi de la me Dina.
 A’sento no so chi.
 Cinque. Va’pian
 e no buttare se a’no butto mi.
 Tutti, sette, tri, otto. An, t’hegi zonto?
 
 
 Atto III Scena IV
 
 214 ERM.
215Ecco, questo è Gareglio.
 O mio fedele amico,
 [97] in che stato ti veggio!
 Gareglio?
 SGAR.
                     A’ghe n’he quatro e ti n’he quatro.
 Vogion slongarla senò al primo di du?
 ERM.
220Oh, come in tutto sta di seno privo!
 Mirami ben, Gareglio, non conosci
 il tuo misero Ortigio, quello a cui
 tanti e tanti favori
 facesti, mentre in un medesmo albergo
225con mia donna vivesti?
 Qual son, anzi non sono,
 sono l’ombra di Ortigio,
 che per seguir Carilla
 e per non esser io da lei fuggito
230in abito di ninfa in questi coli
 errando vivo, anzi morendo spiro.
 Apri tu gl’occhi e il tuo caro e fedele
 Ortigio mira in abito di Ermilla.
 SGAR.
 El gh’è intrà misianza d’ogno sorte:
235salvia, ruccola, indivia,
 grigi de busa, solane, rostiegi,
 [98] scovoli fatti al magio, pessatele
 de Brenta, cavalette, ruffiani,
 sbrogiaculi, zenzale e zanzarelle.
240An, quanta de sta roba gh’andarave
 a far una soletta alla me Dina?
 ERM.
 Ahimè, come la Dina ancor ha in mente!
 Ah, donne ingrate a tanta servitute!
 Ecco dui amanti, ecco del lor servire
245el guiderdon, el meritato frutto!
 Ah, ingrate! Ah, crude! Ah, ribelle d’Amor!
 SGAR.
 Só via, sassine,laghè star el megio!
 Ohè, ohè, só via! Poh mo, quante celeghe!
 ERM.
 Ah, cori adamantini, a sì pietoso
250caso del mio Gareglio aprite, aprite
 la via della pietade, che sempre regnar suole
 ove regna beltade,
 e d’Ortigio dolente
 [99] piangete l’infelice e dura sorte!
 SGAR.
255Sta sera vegnerè che a’supia a ca’.
 ERM.
 Odimi un poco, veh, non ti partire.
 Ei fugge. O fido amante,
 che fia di te? Végoti a’lupi in preda
 o in seno all’onde de riv’alto fiume
260porai fine al languire,
 e sei forse felice
 tanto più quanto sei presso al morire.
 Allor quell’empia e ria,
 cagion della tua sorte,
265piangerà la sua colpa e la tua morte.
 
 
 Atto III Scena V
 
 265 LIC.
 Ecco Ermilla gentile
 che in atto lacrimoso
 qui soletta si lagna.
 Ermilla?
 ERM.
                    Oh, tu sei qui, Licinia mia?
 LIC.
270Che contendevi qui fra te sì sola?
 ERM.
 Io mi lagnava d’un povero servo
 d’Ardenzio, ch’ora s’è de qui partito,
 [100] ch’è divenuto pazzo.
 SERV.
                                                  Chi, Gareglio?
 LIC.
 Deve esser egli certo.
 ERM.
                                         Ha ben tal nome.
275Io ti so dir ch’è pazzo fuor di modo.
 SERV.
 Non sai la cagion di tal pazzia?
 ERM.
 Mi ha detto il suo patrone per amore
 ch’ei portava a una donna di sua patria.
 LIC.
 Di che loco è costui?
 ERM.
                                        È padoano,
280dicono.
 SERV.
280                Perché s’è de lì partito?
 ERM.
 Perché questa sua donna era partita
 da Padoa con un’altra sua patrona,
 che per fuggir l’amor d’un suo fedele
 amante abbandonò la patria e ’l padre,
285ond’ei ratto seguirle al tutto volse
 e dopo aver erato
 in questa parte e in quella
 qui capitò in Euganea,
 e se crede che, opresso dal pensiero
290[101] di non trovar costei, s’abbi impazzito.
 SERV.
 O caso strano, o fede al mondo sola,
 o cruda donna, se di ciò n’ha colpa!
 LIC.
 Com’avea nome questa donna sua?
 ERM.
 Credo ch’Ardenzio mi dicesse Dina.
 SERV.
295E la patrona?
 ERM.
295                           Ahimè.
 SERV.
295                Ohimé?
 LIC.
295                  Che hai?
 ERM.
 M’ha tanto conturbata! O meschinello,
 piango di compassion. Ahi, crudel donna,
 crudelissima tigre!
 LIC.
                                      Caso certo
 degno ben di pietà. Della patrona
300non ti ricordi il nome?
 ERM.
 Ahimè, nel cor la porto:
 Carilla.
 LIC.
                 E de l’amante?
 Non te lo disse Ardenzio?
 ERM.
                                                 Ahimè, ch’el nome
 di quel meschin m’è uscito già di mente!
305Non so se mi ricordo. Ortigio credo
 che si nomava.
 LIC.
                              Che venne di lui?
 ERM.
 Dicon che quando fu la sua Carilla
 partita, tal dolore
 gli sopravenne al core
310che in tre giorni n’uscì di questa vita.
 [102] SERV.
 E questo si sa certo?
 ERM.
                                        Così disse
 Gareglio al suo patron quando era sano.
 SERV.
 Questi son stati ben dui tali amanti,
 questi son stati ben dui tanti fidi
315che non han pari in terra!
 ERM.
 Or non è questo, Servia, un caso strano,
 degno d’ogni pietà?
 SERV.
                                       Sì, per mia fede.
 LIC.
 E che credete voi, che quel’Ortigio
 sia morto per colei? Deve esser morto
320perché tutti a quel fin nasciuti siamo.
 ERM.
 Ah, ingrata donna e cruda!
 SERV.
                                                   Tu non credi
 ch’Amor in un amante
 faccia mortal ferita
 sì ch’el privi di vita?
 LIC.
325Non io che non lo credo, Servia mia.
 Quelle piaghe ch’Amore
 fece nei cori de’bugiardi amanti
 voglion per medicina il nostro onore
 [103] e ben scioca è chi crede
330a le lingue che parla
 per lo cor che sta chiuso e non si vede.
 ERM.
 Ahi, fiera!
 SERV.
                      Prega il Ciel, Licinia mia,
 che in questo stato ti mantenga sempre.
 ERM.
 Se tu vedessi quel povero servo
335astratto for di sé teco parlando,
 tu n’avresti pietà.
 LIC.
                                   Quel che si fusse
 non so.
 SERV.
                 Non lo vorrei già veder io,
 che mi faria tanta compassïone
 ch’io morirei di doglia.
 ERM.
                                             Tarda sei
340stata a pentirti.
 LIC.
340                              Col tuo star turbata,
 Ermilla, m’hai tutta smarita. Andiamo
 per questi colli errando fino al fonte
 ove insieme con l’altre nostre ninfe
 ragionando e scherzando n’usciranno
345questi mesti pensier fuor della mente,
 ERM.
 Andiamo. Ahimè, ahimè, troppo mi preme!
 
 
 Atto III Scena VI
 
 [104] 346 MANG.
 Veh, come per cagion di questo pazzo
 io sono entrato in un bel laberinto!
 ARD.
 Lucenio è sciocco assai più di Druscillo
350se a le parole sue prestato ha fede.
 MANG.
 Come creduto ha tutto quel c’ha detto
 e meco s’è doluto
 dicendo ch’io son stato tradittore
 a usarli questi tratti et che non sono
355cose d’amico!
 ARD.
355                           Assai mi maraviglio
 ch’egli, c’ha fama tra gl’altri pastori
 di saggio, di modesto e di cortese,
 s’abbi lasciato uscire
 tai parole di bocca
360fuor d’ogni ragione.
 Ma gelosia d’amore in parte scusa
 l’error che ha fatto.
 MANG.
 Sì, s’io non li fussi
 stato quel caro e quel fedel amico
365ch’io li son sempre stato! E non sa egli
 [105] la mia natura, che non tengo tanto
 conto di donna alcuna, che la morte
 venga a quante ne sono?
 ARD.
                                               O mio Mangino,
 t’han fatto forse tutte dispiacere?
370Io ti concedo ben che ve ne siano
 di perfide, d’ingrate,
 e s’io dicessi ancor la maggior parte
 non fallerei, ma tutte è un dispregiare
 quanto di bello ha il mondo!
 MANG.
375Tieni le tue ragion, che ti so dire
 che, s’alcun maledir donne dovria,
 esser dovresti il primo, tanto bene
 da lor tu sei trattato.
 ARD.
                                        Io mi lamento
 della mia trista sorte che me ha tolto
380Persea, né ancor di ciò s’è contentata,
 ch’el mio caro Gareglio hammi levato.
 MANG.
 Chi t’ha tolto Gareglio? Non la sorte
 ma crudeltà di donna, e ancor tu vuoi
 coprir i lor diffetti?
385Io benedico il Ciel che nei primi anni
 mi diede occasïon ch’io mi chiarissi
 [106] quanto sia male a servir queste ingrate.
 ARD.
 Che t’intervene, caro il mio Mangino?
 MANG.
 Ascolta se n’udisti una più bella.
 ARD.
390Di’.
 MANG.
390          Giovenetto ancor sbarbato essendo
 m’accesi d’una vaga pastorella,
 che Citrina avea nome, e in questo amore
 ella non men di me mostrò d’amarmi;
 ond’io, ch’in tal impresa era inesperto,
395credeva con una man toccar il cielo.
 Sovente io la seguia per questi colli
 seco cantando amorosetti versi
 e sfogando col canto i nostri amori,
 talché a invidia di me molti pastori
400erano mossi. Io di lor non curando
 attendea lieto all’amoroso gioco.
 Ella soletta alla capana mia
 a trovarmi venia,
 ove corcati e ripossati un poco
405[107] godevamo d’amor gl’ultimi frutti
 e poi con fresco e tepidetto latte
 de state spengevam la sette e ’l caldo,
 e le dolci castagne e le nocciuole,
 i pomi e i peri e [...], ond’ella avea
410ripieno il grembo, n’era gratto cibo.
 Indi meco venia verso la sera
 a noverar ne la mia mandra il gregge
 e qualche bel capretto
 allora nato seco via menava,
415a cui di bel monile il colo adorno
 facea e v’incidea queste parole:
 “ Questo è don del mio amor, lascialo andare ”.
 Se lieto, se felice, se contento
 mi riputava, tu lo puoi pensare.
 ARD.
420Finor non hai ragion di lamentarti
 di donna alcuna.
 MANG.
                                 Ancor non son al fine.
 Non durò questo amor cinque o sei mesi
 che sopragionto il verno fui costretto,
 perché troppo era fredo il nostro colle,
425ridurmi col mio gregge in Mirabello,
 [108] cinque o sei miglia a basso verso il piano.
 Non ti dirò nel mio partir quai furo
 i pianti, le querelle, i baci, i preghi
 di non scordarmi lei, di ritornare,
430perch’erano infiniti, et io ch’ardea
 meschiando l’onde mie coi pianti suoi
 mille di ritornar le fei scongiuri
 e di portarla ognor nel cor scolpita.
 Così partimi. El ver non ti nascondo,
435che ambe le guancie mie bagnate e molli
 d’amarissimo pianto io ne portai,
 e mentre in Mirabel feci dimora
 altri in bocca, altro in core io non avea
 che la lasciata mia bella Citrinia.
440I giorni, l’ore, i punti io annoveravo
 et incolpava il sol che tanto tardo
 ne rimenasse a noi la primavera,
 [109] la qual, dopo’una lunga al parer mio
 tardanza, venne e a noi, ch’in lieti fiori
445mostrò il suo seno vagamente ornato;
 onde lieto partimi et a l’usata
 mandra ne rimenai meco ’l mio gregge
 e a la capanna mia me ne tornai.
 Né sì tosto fui gionto che novella
450de mia cara Citrinia dimandai.
 Così mi fu risposto che, dopoi
 ch’io fui partito, un Ernesto pastore
 di lei si accese e seppe sì ben fare
 ch’al suo voler in breve la condusse.
455Pensa com’io restai qual sasso privo
 d’ogni spirto vital, d’ogni calore;
 ma in me poi rivenuto al sospirare,
 al lamentar, al lagrimar mi diede.
 La ritrovai dapoi, ma tanto fece
460vista d’avermi mai veduto o udito
 come s’io fusse di lontan paese;
 ond’io per due e ancor per quatro mesi
 m’afflissi tanto che mancava poco
 [110] a fenir e la vita e ’l duol insieme.
465Ma risvegliato e ripensando bene
 alla poca costanza e poca fede
 di tutte l’altre donne e al poco amore,
 deposi il duol con patto espresso e chiaro
 di non amar mai più donna in mia vita,
470anzi a mio poter odiarle a morte
 come cagion di quanto mal è al mondo.
 ARD.
 Hai gran ragion se ti lamenti, o quante!
 
 
 Atto III Scena VII
 
 R471 DRUSC.
 Che, sète qui!
 MANG.
                             Tu non mi vedi?
 DRUSC.
                                 Oh come,
 ché son io sordo? T’andava cercando.
 MANG.
475Che volevi da me?
 DRUSC.
475                                    Ma tu m’hai dito
 che, quando che ragioni con qualch’uno,
 che mi stroppi la lingua e che mi freni
 l’orecchie.
 MANG.
                      Tu sei molto obedïente.
 [111] Ben, che volevi?
 DRUSC.
                                          Io nulla et anco meno,
480quanto a me.
 MANG.
480                          Adunque?
 DRUSC.
480                      È stato alla capanna
 un che ti adimandava in molta fretta.
 MANG.
 Che dimandava me?
 DRUSC.
                                         Credo de sì.
 Disse dov’era il mio patron Mangino.
 MANG.
 E che li rispondesti?
 DRUSC.
                                        Non risposi
485altro se non che a correr io me misi,
 né ho cessato mai che t’ho trovato.
 Vieni dunque.
 MANG.
                              M’aspetta alla capana?
 DRUSC.
 Che ne so io?
 MANG.
                            Son queste delle tue.
 Quando farai mai bene un’ambasciata?
 DRUSC.
490Oh, ve per esser troppo diligente
 come c’ho guadagnato un ” fosti uciso ”!
 ARD.
 Non t’adirar, Druscillo, con il patrone
 che ti vol bene.
 DRUSC.
                               Mai sono per scordarmi
 c’ha detto che voria che fusse ucciso.
 ARD.
495Burlava.
 DRUSC.
495                  E non son così da burlare.
 Ch’io fussi morto, ah, starei poi fresco!
 
 
 Atto III Scena VIII
 
 495 Veletria sola.
 
 Giungerai pur, Veletria, giungerai
 [112] al fin de’tuoi desiri.
 Queste son le speranze che mi diede
500o che mostrò di darmi il mio pastore
 (che dico io mio, s’ei fugge?)
 l’ultima volta ch’io con lui parlai.
 O Fidizio crudele,
 son queste le parole
505e le promesse che tu mi facesti
 d’aver di me pietade? E quei scongiuri
 che ti dolea il mio mal, dove son giti?
 Deh, perché almen, se t’è partir bisogno
 da questi colli, ché non meni teco
510non la tua moglie o amante, che non sono
 degna d’esserti l’un né l’altro meno,
 ma la tua serva e sconsolata ancella?
 Più tosto di mia morte
 fusse venuta l’ora
515che della tua partenza.
 Come potesti aprir, perfido, mai
 [113] le labbia e dirmi: ” A dio, Veletria, a dio ”?
 E a me, che la cagion del tuo partire
 ti dimandava, dir queste parole:
520“ Depon giù quel amor che per me t’arde,
 che pria concenti fian le nevi e ’l gelo,
 andran i monti in ciel, non sarà il sole,
 pria seccarsi il mar di lido in lido
 che da me possi aver quel che desii ”.
525Qual io rimasi al suon di questi accenti
 Non so se morta in vita o viva in morte
 e tanto valse in me la doglia immensa
 che risponder parola non potei;
 ma quando dal dolor mi fu concessa
530forza alla lingua di poter sfogare
 l’interna doglia, ei già se n’era gito
 tanto lontan ch’udir non mi potea.
 Fidizio, sei partito e m’hai lasciata
 senza di te! Ma non fia vero mai
535che dal suo cor stia il corpo mio diviso.
 Deh, se al partir tu mi dicesti: ” Vivi,
 vivi, Veletria, scordati il mio nome ”,
 [114] ché non darmi cagion ch’io viver possa?
 Ben adesso conosco
540che mi narasti il ver quando dicesti
 che non amavi Ermilla.
 Ohimè, che meglio per me stato fora
 che tu l’avessi amata, che partito
 non ti saresti et io quella speranza,
545che già viva mi tiene, arrei goduta.
 Tu te ne parti e tronchi
 le foglie e la radice
 di questa alma infelice.
 Ma già che morir debbo, voglio almeno
550non solamente che mia morte intendi,
 ma che con gl’occhi tuoi, crudel, la veda.
 
 
 Atto III Scena IX
 
 550 Fidizio solo.
 
 Qual debol legno in più turbato mare
 mentr’Eolo i venti suoi discioglie e slega,
 [115] lassa, mi trovo combattuta e stanca:
555quinci mi volgie il fiero Noto e quindi
 il superbo Aquilon, e in tal tempesta
 inesperto nocchier siede al governo.
 Chi fia che mi consegli e che m’aiti?
 Il vero amor mi sprona a gir errando
560per ritrovar Ortigio, la sembianza
 di lui, ch’è Ermilla quivi mi ritiene.
 Di questi due nemici al viver mio
 chi vincerà no ’l so. Vinca chi voglia,
 né ben né mal di tal vitoria aspetta
565la fortunata Persea. Pur il meglio
 è che de qui mi tolga: rimanendo
 nulla posso acquistar, perder assai.
 Qui dietro Ermilla mi consumo e moro
 senza far frutto alcuno. Io voglio al tutto
570partirmi. O Persea, ahimè, che se tu parti
 per ritrovar Ortigio, perderai
 la dolce vista sua lasciando Ermilla;
 e poi chi sa se tu lo troverai,
 chi sa ch’ei non sia morto. Ohimé, più tosto
575[116] morta foss’io et ei lieto e tranquillo
 l’ossa mie raccogliesse e questi accenti
 sopra il tumulo mio chiari incedesse:
 “ Dopo’lungo vagar d’Amor ferita
 Persea ritrovò Ortigio. Egli pietoso
580ne la sua morte fu crudel in vita ”.
 Deh, s’io credessi, ahimè, che l’ossa mie
 questo felice fin dovesse fare,
 quivi le lascierei lieta e contenta
 A che, Persea, t’affliggi? O poco ardita,
585lascia, lascia la causa del tuo male,
 sgombra questo paese e resta Ermilla
 ne la sua crudeltade.
 
 
 Atto III Scena X
 
 585 ARD.
 Ecco Fidizio
 che si lamenta. O miserello Ardenzio,
590quanti compagni in questo mal ritrovi!
 Ma pur peggior di tutti è l’esser mio.
 FID.
 Che voce è quella ch’odo? Morta o viva?
 [117] ARD.
 Viva ma in corpo mille volte morto
 e, per maggior mio mal, vivo per forza.
 FID.
595Ardenzio, strane son queste parole.
 Credo che m’abbi udito a lamentare
 e che mi burli.
 ARD.
                              Possia tal burlare
 far chi è cagion della mia pena ria.
 FID.
 E quale è la cagion che sì t’affligge?
 ARD.
600Tu perché ti lamenti?
 FID.
600                                         Amor m’induce
 a lamentar e trar da questi lumi
 dui amari torrenti, anzi dui fiumi.
 ARD.
 Or ben ti puoi pensar qual anco sia
 la cagion del mio male o per dir meglio
605del mio crudo languir ch’è la mia morte.
 FID.
 Qui non è piaggia, selva, riva o bosco,
 antro, spelonca, rio, fonte né fiume
 che non sappia ’l mio mal donde deriva.
 Ecco alle voci mie tanto risponde
610che l’aria offesa suona ” Ermilla! Ermilla! ”.
 Ma tu qual novo amor tanto t’offende?
 Che ferita novella il cor t’impiaga?
 Dev’esser qualche dea questa tua amata
 [118] che non scuopri ad alcun la pena tua.
 ARD.
615Fidizio mio, tant’è il mio mal maggiore
 quanto celato entro le venne il porto,
 ma salo solo Amore,
 e se far io potessi
 ch’anch’ei non lo sapesse,
620a me più dolce e caro
 fora ’l mio foco e ’l mio languir più gratto.
 E perché so ch’in amoroso ardore
 la lingua alquanto sfogando la doglia
 tempra il martire e men lo rende grave,
625io per non dar al mio gran mal soccorso
 per morir taccio e ognor tacendo moro.
 Ma perché sappi che non meno un punto
 di te, lasso, mi doglio,
 t’aprirò quel che solo al mio Gareglio,
630al mio caro fratel, celar non volsi.
 Amai, amo, amerò perfin ch’io vivo
 [119] Persea bella e gentile,
 Persea, Persea per cui
 misero errando in questa parte e in quella
635meno la vita mia dolente e trista.
 Persea, cara d’Emon sola figliuola
 con la sua bella e colorita guancia,
 con le lucenti stelle
 d’amor vive fiammelle
640m’accese et arse, e mentre i’mi godea
 d’esser di bella ninfa in lascio avvolto
 onde ogni speme mia lieta fioriva,
 dal bel colle natio già molti mesi
 ella fé dipartita,
645e cred’io che ciò fosse
 per privarmi di vita.
 In qual parte ella sia
 non pur non so, ma ’l vecchio e stanco padre
 immaginar non possi.
650Io, dopo’averla in Belvedere un mese
 invan attesa, pellegrino errando,
 lasso, la vo cercando,
 [120] né pur l’ho ritrovata ma novella
 di lei in tanto tempo non ho udito.
655Vedi se di languir, se di morire
 Ardenzio ha gran ragion?
 FID.
 (Voglio vedere
 di far sì che costui di me si scordi.)
 Pon giù, Ardenzio, l’amor, pon giù ’l desio
660di seguir la tua Persea. Invan t’affligi,
 invan consumi il tempo, i passi e ’l pianto.
 ARD.
 Invano? Ohimè, perché? Sapesti forse
 darmi nova di lei? Caro Fidizio,
 sgombra dal petto mio quella paura
665ch’el tuo tormi di speme m’ha già posto.
 Sai tu dov’ella sia?
 FID.
                                     Sì, ma mi temo
 di dirtelo.
 ARD.
                      Ah, Fidizio, se tu brami
 il mio ben, la mia vita,
 dimmi dov’ella è gita.
 FID.
670Io son contento di darti novella
 di questa ninfa e in ricompensa voglio
 [121] che mi prometti e giuri
 di scordartila poi.
 ARD.
                                   Più tosto voglio
 finir la vita che non amar lei.
675Non mi parlar di ciò.
 FID.
675                                        Fa’quel che vòi.
 Partissi Persea tua dal Belvedere
 ferita et arsa del più vago e caro
 peregrin che già mai tempio cercasse,
 e devenuto amante
680per goder tanto bene
 dietro le mosse le veloci piante,
 e dopo’aver invan cercato un tempo
 d’amor afflita e dal viaggio stanca
 nel bel monte di Cerere fermossi,
685e tal fu il suo dolor, tal la sua pena
 di non trovar colui ch’in pocchi giorni
 finì la vita e i passi.
 ARD.
                                       Ahimè, sai certo
 ch’ella non viva?
 FID.
                                 Certo, ch’un pastore,
 ch’a le infelici sue osse meschine
690diè sepultura...
 ARD.
690                              Ahimè!
 FID.
690                 ... mi disse questo.
 ARD.
 O nova a me più della morte amara!
 O giorno a me più della notte oscuro!
 [122] O stelle congiurate a farmi oltraggio!
 Deh, più tosto avess’io nel cieco inferno
695ombra palida e trista
 oggi Lethè e Cocito
 varcato dietro alla mia Persea cara
 ch’aver teco parlato!
 FID.
                                        Il lamentare
 non ti farà ch’ella ritorna in vita,
700Ardenzio mio, e s’io creduto avessi
 di farti col mio dir tanto dolente,
 avrei tacciuto; però questo colpo
 lieve con saldo cor vinci e risana.
 ARD.
 Deh, che pur m’era dolce il gir errando
705vivendo di speranza di vederla!
 Corta m’era ogni via noiosa e lunga,
 ogn’erto et aspro monte era a me piano,
 quando che Persea mia trovar sperava.
 Or mii saranno i prati
710scogli e sassose balze,
 i fiori a me fian spine,
 [123] ghiaccio sarammi il sole,
 poiché senza il mio ben rimango in vita.
 FID.
 Mentre fortuna a noi lieta e tranquilla
715volgie la fronte, ogn’un sa viver lieto,
 ma un uom saggio qual tu vincer dovria
 questo dolor con animo costante
 e con pazienza tolerar il fatto
 che l’infelice Persea a morte spinse.
 ARD.
720Se quanto gregge la mia mandra serra
 fosse dal stato fier statomi tolto,
 non me ne lagnerei, ma de’begl’occhi
 in cui mille faville Amor spargea
 hammi in un punto morte
725privato. O cruda sorte!
 E non spargerò al ciel gridi e lamenti?
 Eco, se mai pietà del tuo Narsiso,
 del tuo candido fiore,
 già mai ti punse il core,
730a le dolenti mie note rispondi
 tanto ch’i coli, le campagne e i boschi
 dal mio tanto cridar ” Persea ” percosse
 [124] risuonin per Euganea ” Persea! Persea! ”
 FID.
 Se ritornar col pianto e coi sospiri
735tuoi Persea più potessi in questa luce,
 io ti consigliarei che la piangesti,
 ma non ti ode ella e al vento il fiato spiri.
 Non fia meglio per te scordarti questa,
 già che sei fuor di speme, e ritrovarne
740un’altra più di lei bella e gentile?
 ARD.
 Non creò il Ciel già mai né vide il sole
 ninfa di lei più bella e più leggiadra,
 e sicome al mio cor mentr’ella visse
 fu dolce cibo, io voglio ancora morta
745serbarmela scolpita in mezo ’l petto
 mentre questo meschin misero spirto
 reggerà queste afflite ossa infelice,
 che sarà corto tempo.
 FID.
                                          Ardenzio,
 e ne lo stato mio ti riconforta,
750[125] ché per fuggir Amor quinci mi parto
 per gir tanto lontan ch’in questi colli
 giamai più s’oda il nome mio.
 ARD.
                                                         Starai
 molto a partir?
 FID.
                               Or or, come ti lascio.
 ARD.
 Caro Fidizio, quel pastor ti disse
755che nel monte di Cerere sepolta
 giace colei?
 FID.
                        Ivi mi disse a punto.
 ARD.
 Resta in pace, pastor, vanne felice,
 ch’io per non viver più quindi mi parto.
 FID.
 O che, odi. Ove ne vai? Ne va sì ratto,
760sì turbato nel viso, sì dolente
 ch’io mi temo di lui. Ohimè, c’ho fatto
 un grave errore, che, se costui m’ama
 così col cor come nel viso mostra,
 potria dal gran dolor darsi la morte.
765Che farò dunque? Io troverò Licenia
 pria che mi parta e le dirò che dica
 a Ardenzio ch’io burlava della morte
 di Persea, e così ancor starà in speranza
 di ritrovarmi, et io peregrinando
770per monti e boschi il mio leggiadro amante
 [126] ove trammi il piè voglio ir cercarlo.
 
 
 Atto IV Scena I
 
 Sgareggio solo.
 
 Pota, el par ben ch’a’no supia Sgaregio
 e che a’sea deventò mato spazzò!
 A’me vego intrigò pi ca no gera
 Tulo, che s’intrigà na note in letto
5inte la pena e si sté tri dì perso.
 Pota, mo a’son inte ’l gran slaberinto:
 ho catò la parona e la me Dina,
 ho catò la morosa del paron
 vestia da maschio, e sì ho catò quel gramo
10d’Ortigio sfresegò, sconio, desfatto,
 co le cotole indosso, e pur che a’posse
 el bogna che a’gi alturie tutti quanti.
 Mi no crezo che quante rizzarole,
 quante chigie se dovra sul Pavan
15[127] destrigasse sta stopa. Orsù, Sgaregio,
 veh, no te perder, co disse colù,
 de cotali, de anemo! Comenza
 a metter man a un tasco de noele!
 La prima c’he catò la me va ben,
20de butarme de matto. A’son Sgaregio.
 El m’è stà messo lom così da toso,
 che anaséa drio a puorci, que d’aosto
 al tempo delle noxe a’me conzava
 sotto qualche nogara a sgaregiare
25nose e chi voléa vêrme me catava
 col manego in le man del me cotale
 a scapar nose e magnar i sgarigi,
 e con pi l’iera strette e primaruole
 mi pi oentiera me ghe sfaigava,
30e per zò tutti me diséa Sgaregio.
 Quando a’son vegnù grande, a’g’he tegnù
 de ben in megio a mente la me usanza,
 che a’no me g’he possù mè pi destuore.
 Orbente, adesso a’no sgaregio nose,
35ma sacrietti ho cavò for di cerviegi
 [128] a farme mato. Mo s’a’conzo mo
 ste verze e far che tutti séa continti,
 no sarègi un predomo? Cancar è!
 Mo no sarègi an mi po menzonò
40co è Garbinello, co è Truffa e Garbugio,
 che è stè rizini de ste garbinelle?
 A’me vago pensanto. A’l’he catà.
 Mo chi dirà: ” No, no, la n’ha del bon ”.
 Se a’diesse c’ho fatto per... No, manco,
45la no ghe va. Se a’catasse el paron
 e dirghe... Cancar è, mo a’starae fresco!
 A’sento che ven zente, a’metto man.
 Puh, la xe fatta!
 
 
 Atto IV Scena II
 
 47 SGAR.
 Miracoli grandi!
50La maor ventura, la maore
 que séa mè stà, que mè sarà!
 MANG.
                                                       Druscillo,
 [129] ecco Gareglio. Piglia questa fune
 da un capo, perché vo’che lo lighiamo,
 ch’el suo patron Ardenzio m’ha pregato
55ch’io lo leghi se l trovo,
 acciò non cada giù da qualche balza.
 DRUSC.
 Lascia la cura a me.
 SGAR.
                                       Poh, mè pi al mondo
 no s’ha aldio n’altra bota co xe questa!
 O que legrezza!
 DRUSC.
                               Saldo, piglia, tieni!
 MANG.
60Piglia quel braccio.
 SGAR.
60                                     O fradiegi, que fèo?
 Laghème stare, moa. Mo su, rivèla!
 Mi a’ne he robò, mi a’n’he mazzò negun.
 DRUSC.
 Sta’queto ch’io ti scano con sta corda.
 MANG.
 Druscillo, legal ben sicuro e forte.
 DRUSC.
65Egli è sicuro e ti so dir da vero.
 SGAR.
 Pota de mi, molème que a’m’hi tolto
 in falo. A’te darè d’un pè in la panza.
 Làgame.
 DRUSC.
                   Adunque tu non ti contenti
 che ti leghiamo?
 SGAR.
                                 No. Mo su, molème.
 DRUSC.
70Oh, se non vole, lasciamolo stare.
 Egli ha ragion. Vogliamo noi legarlo
 per forza?
 SGAR.
                      Ah, traitore, a’sì vegnù
 [130] da resguardo. Oh, perqué songio ligò,
 che a’ve sfrantumerae g’vuocchi a un de vu?
 MANG.
75L’hai ben assicurato?
 DRUSC.
75                                         Egli è sicuro.
 MANG.
 O infelice!
 SGAR.
                       Perqué? Me volìo
 mazzare?
 DRUSC.
                     Sì.
 SGAR.
         Mo perqué? Ch’hegi fatto?
 Cari fradiegi, laghè almanco che
 a’me confesse e che a’mande scrivanto
80a me mare, a me frello, che a’son morto
 senza far testamento. O Dina cara,
 adesso che a’crezéa galderte un puoco
 a’son senza cason fatto morire!
 MANG.
 Or andiamo a trovar Ardenzio suo
85patrone, acciò possa condurlo via
 alla capanna.
 DRUSC.
                           Andiamo? Oh, che peccato!
 SGAR.
 O là, sbio. On anèo, an, sassinoni?
 A ligarme chialò, povero mi,
 pasto da luvi, an? Gramo Sgaregio,
90desgraziò. O Amor, te m’he ben fatto
 cagar in le braghesse sta imbatua!
 O Pava bella, a’te verò, co i dise,
 [131] cascazùa in le neghe! Almasco me
 poesse strangolar e desligarme
95da me posta pi presto ch’esser pasto
 de luvi in ste campagne a muò un castron.
 Vate mo fa’da matto, poltronazzo.
 Dise ben el proverbio che chi cre
 chiapar altri s’osela da so posta.
100Poh, chi arae mai pensò che per na vacca
 a’doesse far na morte d’anemale?
 O mare cara, s’a’fossé chialò
 a vêre el vostro povero figiolo
 stretto ligò per dar da cena ai luvi!
105Questo è ben altro che la panaella
 ch’a’me fasivi, e i sugoli col vin
 e i fasoli machè quando aéa male,
 puovero mi, e co gera suò
 fregolarme col sacco ben la schina,
110muarme la camisa, spiocchiarme,
 consarme la camisa, i calzaritti.
 O quando me partî, che a’me recordo
 che a’vegnessi pianzanto in su la via
 [132] a dirme: ” Va’, che t’averè bisogno
115de la to cara mare! ”. O traitore,
 che v’hegi fatto c’hi vogiù trattarme
 a sto muò senza darvene cason?
 Osù, no cade pi stare a sgnicare,
 a’vuò far un cuor cru. Dina, per ti, veh,
120a’muoro. Osù, so posta. A’vuò sarare
 gi uocchi per no me vêr magnare. O pure
 è megio che a me metta a criar forte
 alturio, se qualcun fuossi me aldisse
 e vegner alla ose e desligarme?
125Mo s’a’criasse e i luvi me sentisse
 e vegner a man salda? Ma a so posta,
 tanto pi presto a’sarè for de briga.
 Alturio! O montanari, aldìo?
 ECO
                                                      A dio.
 SGAR.
 O laldà Dio, a’sento un che responde.
130S’te aldi, mo camina. Viento, an?
 ECO
130                                                             An?
 SGAR.
 Oh, el vien. Camina, la me scampa!
 ECO
                                                                   Scampa!
 SGAR.
 Mo cancar è, mo l’è bella, poere!
 [133] Slonga i passi, s’te vuò. Ov’ièto?
 ECO
                                                                       Ov’ièto?
 SGAR.
 A’son chialò, cancaro ai gnoranton!
135No séntito on che la ose sbragia?
 ECO
135                                                            Ragia.
 SGAR.
 A’ragio co fa un aseno. Vien derto
 s’te vuò ben vêr comuò ch’a’staghe.
 ECO
                                                                   Staghe.
 SGAR.
 Va’, ghe starè mi, che a’faghe de manco
 s’a’posso. Mo, e vié via ! E là?
 ECO
                                                         E là.
 SGAR.
140O che questo è qualcun che me minchiona
 o che l’è quella ose che se sente
 in le muragie. Mo a’m’inchiarirè.
 Che ose è quella che responde?
 ECO
                                                           Onde?
 SGAR.
 Miessì la merda ! Me l’hei mo pensò?
145Ghe voléa st’altra a farla pi maura.
 A’me smaravegiava ben ch’aesse
 abio tanta ventura. Orsù, pazinzia,
 ho ben trato d’i piè inte ’l colzeron!
 El ven de botto scuro e negun passa.
150A’son for de speranza, a’saro gi uocchi.
 M’arecomando, se ghe xe qualcun
 che a’gh’abbie fatto despiasere, a tutti
 a’domando perdon. Dina, a’te lago.
 
 
 Atto IV Scena III
 
 [134] 152 MANG.
 Eccolo lì.
 ARD.
                    O povero Gareglio.
 SGAR.
155Me par che a’senta zente o che a’m’ingano.
 ARD.
 Come lo condurem se non si porta?
 MANG.
 Gli legheremo ben le mani e i piedi
 e facendo una barra di venciglie
 lo porteremo alla capana tua.
 SGAR.
160A la fe’, che ’l ven zente.
 ARD.
160                                             Mio Gareglio,
 come ti senti?
 SGAR.
                             Paron caro, o Dio,
 mo a’sì pur vegnù a tempo! Mo no sóngi
 stò sassinò da du traitoron
 ch’è vegnù da resguardo co na corda
165e sì m’ha ligò chì? Se a’no vegnivi
 a’catavi le strazze senza el busto.
 ARD.
 Caro Gareglio mio, t’hanno legato
 perché sei pazzo, acciò che non incorri
 a farti qualche male.
 SGAR.
                                        Mi a’son mato?
170Mo a’v’inganè, a’son guarìo, paron.
 Mo deslighème que aldirì de bello.
 [135] MANG.
 A me par saggio. Vuoi che lo sleghiamo?
 ARD.
 Sì tosto. O mio Gareglio, o mio fratello,
 or moro volentier che t’ho veduto
175sano.
 SGAR.
175            Pota, hi sapù ben far i zaffi!
 M’hìo mo ligò sì stretto che m’haì mezo
 segà sta man? O paron caro e bello,
 mo a’son stò male, a’son stò squasio morto.
 M’hiu mè vezu?
 ARD.
                                 Che, tu non ti ricordi?
 SGAR.
180Ma messier no.
 MANG.
180                              Gareglio, io mi rallegro.
 SGAR.
 Gramarcé, te m’he dò na gran strucà
 a sta zontura, cancaro te magne.
 MANG.
 Eh, l’ho fato per ben.
 DRUSC.
                                         Dammi la corda,
 se non fa più bisogno.
 SGAR.
                                           Tuo’pur, frello,
185e dròvela per ti.
 DRUSC.
185                               Eh, tu non credi
 ch’io voglia porla in opera?
 SGAR.
                                                    Atorno ’l colo.
 O paron, a ve vego pur oentiera.
 Siu san?
 ARD.
                   Ahimè, peggio che mai, Gareglio!
 Io mi ritrovo disperato e morto,
190privo d’ogni mio ben, d’ogni speranza.
 SGAR.
 Que vol dire che a’sì desperò?
 A’son ben mi tutto alla roessa,
 che a’g’ho catò la Dina.
 A’no dissé cosi.
 ARD.
                                Ohimè, che puoi
195saper se stato sei fuori di seno
 fin ora?
 SGAR.
                  O a’ghe son stò o he fatto vista.
 A dirve el vero, a’g’ho fatto da mato
 e quando a’ve dirò po la cason
 dirì che a’son el primo omo che porte
200braghesse.
 ARD.
200                      Hai fato il pazzo?
 SGAR.
200                                  Sì, ma cito,
 negun n’averza boca.
 MANG.
                                         Non temere.
 ARD.
 Or dimi la cagion.
 SGAR.
                                    Stème ascoltare.
 Sta mattina anaganto per sti buschi
 a’g’he catò do tose de ste ninfe
205che rasonava co un de sti pistore,
 e co a’le guardo me par ch’una séa
 la me Dina e quell’altra la parona.
 Co a’le g’he ben smirò quanto che a’vuò,
 a ghe digo: ” Bon dì ”. Elle me dise:
210“ Bon dì , bon ano ”, co se fa. Mi, che
 le me paréa elle, a’comencié
 [137] a dir: ” Che fèu, cara la me parona?
 Mo come sìo chialò? Mo que fetto, Dina,
 moroseta me cara? ”.
 ARD.
                                         Io non so dove
215vogli inferire.
 MANG.
215                           Egli ha da star un mese.
 SGAR.
 E sì, co a’digo rivarve da dire,
 la scomenza a sgrignare e dirme: ” Frello,
 t’he pigiò un granfo, te n’he tolto in fallo ”.
 ARD.
 Erano quelle, poi?
 SGAR.
                                    Mo pian, scoltè.
 MANG.
220Di’pure.
 SGAR.
220                   Mi, che le me paréa ele,
 a’comencié a pensare che la Dina
 no me volesse ben co la soléa,
 e per chiarirme se le in gera certo
 e se le gh’ésse bu qualche moroso,
225a’me finsi da mato con diganto
 le no se guarderà dal fato me.
 Così, perché dai mati no se schiva,
 la me sé mo andà fata, e dopiamen,
 ché cercanto scovrir la me morosa
230a’g’he scoverto delle gran noelle,
 delle gran furbarì che s’abbia aldì.
 ARD.
 Tu sei, Gareglio mio, ben più felice
 [138] d’uom ch’oggi viva, ma a l’incontro sono
 ben io dolente, misero e infelice.
 SGAR.
235Perqué?
 ARD.
235                  Perché ’l mio ben, l’anima mia,
 la mia Persea gentile, il mio tesoro,
 la cagion di mia vita e di mia morte
 è morta.
 SGAR.
                   Morta? Mo da quanto in qua?
 Comuò?
 ARD.
                   Ahimè, che sono già tre mesi
240che nel monte di Cerere è sepulta.
 SGAR.
 Chi ve l’ha dito?
 ARD.
                                 Fidizio pastore,
 che quello che l’ha dato sepoltura
 glel’ha narato.
 SGAR.
                             Oh oh, che bella bota!
 Felice ve l’ha dito?
 ARD.
                                     Sì, Fidizio.
 SGAR.
245El mente per la gola. La xe viva!
 ARD.
 Tu mi burli.
 SGAR.
                          L’è viva, bella e sana.
 El v’ha cazzà carote.
 ARD.
                                       Dici il vero?
 SGAR.
 Mo stè sora de mi.
 MANG.
                                     Vedi tu dunque
 s’io ti lasciava gir a ritrovarla
250nel bel cole di Cerere, che andavi
 [139] invano a rischio di darti la morte
 da disperazion?
 ARD.
                                O mio Mangino,
 cagion d’ogni mia giogia, o mio Gareglio,
 cagion della mia vita, adunque vive
255Persea?
 SGAR.
255                 L’è viva.
 ARD.
255                  Sai dove si trova?
 SGAR.
 Mo misier sì ch’a’’l so.
 ARD.
                                            Deh, mio fratello,
 insegnemi dov’è. Vedi, ti dono
 tutto il mio gregge e ancor l’armento mio.
 Io ti faccio padron, me faccio servo.
 SGAR.
260A’l’accetto. M’andon in ver de ca’,
 ch’a’ve dirè ogni consa de mi a vu.
 ARD.
 Andiam. Va’inanti tu, che sei patrone.
 SGAR.
 Osù, vien tonca drio.
 ARD.
                                         Mangino adio.
 MANG.
 Veniremo ancor noi ver la capanna.
265Oh, che astuto bifolco al mio simile!
 DRUSC.
 Andiamo, ch’io m’avea scordato un poco
 di brage in cima il cascio et ho paura
 ch’il cane non se l’abbia già mangiato.
 MANG.
 Gran danno!
 DRUSC.
                           È nulla a te, che non ti tocca.
 
 
 Atto IV Scena IV
 
 [140] 269 LIC.
270Parmi, Servia, dopo’ch’abbiam veduto
 il tuo fedel Gareglio in tanta estrema
 pazzia, ch’io non mi possa rallegrare.
 SERV.
 Misera me, dove son per trovare
 scusa che con alcun punto mi vaglia
275di non esser chiamata più crudele,
 più fiera che Medea? Ma del mio male
 tu, Carilla crudel, cagion sei stata,
 prima della mia fuga e poi d’avermi
 celata al mio Gareglio; ond’egli astretto
280dall’amor che già tanto mi portava
 pazzo errando ne va, misero, ognora
 il mome mio chiamando. Et io soporto
 vederlo in tale stato
 senza trarmi di vita?
 LIC.
                                         Ah, Servia mia,
285non ti lasciar dal duol tanto occupare
 che la ragion in te loco non abbia.
 [141] Tu mi chiami crudel, mi chiami ingrata,
 hai torto, io non ho causa: accusa Amore
 che ver me non mai volse arco né strale.
 SERV.
290Se tu fosti una donna come sei
 una fiera inumana, non traresti,
 non traresti dagl’occhi un largo rio
 di lacrime a pensar come sei stata
 cagion di far morir colui che tanto
295gentil, tanto cortese, tanto bello
 t’amò mentre ch’ei visse? Ortigio, dico,
 ch’or per tua crudeltà giace sotterra,
 come ti disse sì pietosamente
 Ermilla, e tu non pur ne lagrimasti
300ma de la morte sua lieta gioisti.
 E non vòi ch’io ti chiami ingrata e ria?
 LIC.
 La passïon che del tuo amante tanto
 ti preme, fati creder che mi sia
 un sord’aspe, una tigre. Io ti concedo
305[142] quello che vuoi, purché t’acquieti alquanto
 di sospirar. Ahimè, quando credea
 con aver la cittade abandonata
 teco tra questi colli viver lieta,
 maggior travaglio m’apparecchia il Cielo,
310ch’é di vederti, o mia non fedel serva
 ma mia cara sorella, tanto afflita.
 Sgombra, sgombra oggimai dagl’occhi il pianto,
 dal cor la doglia, ch’el fedel Gareglio
 non men di te mi dole e dentro il core
315mi punge il caso suo tanto infelice.
 Scaccia il dolor, chi sa ch’ancor sano
 non torni, onde di lui lieta godrai.
 Sono in buona speranza.
 SERV.
                                               La maggiore
 prova che far si possa è far il male
320e creder poi che ne risulti il bene,
 Licinia, poi che con maggior mio dolo
 t’ho da nomar Licinia.
 LIC.
                                           Se creduto
 [143] avessi che a celarsi
 questo accidente non fusse accaduto,
325m’avrei scoperta ancor che fusse stata
 certa d’aver la morte.
 SERV.
 Fatt’è, né puossi al rio destino opporre;
 ma ti so dire che a tutto il male e al bene
 che starà il mio Gareglio, anch’io star voglio
330sino a la morte.
 
 
 Atto IV Scena V
 
 328 LUC.
 Marzio, ecco Licenia.
 MARZ.
 Ci è Servia ancora. Or che l’abbiam trovate
 sole, potrai sfogar pur a tua voglia
 i tuoi martiri e ragionar con lei.
 LIC.
335Ecco Lucenio, Servia.
 SERV.
335                                         Egli è venuto
 in un buon punto con quel suo sgarbato
 e rustico bifolco.
 LUC.
                                 Marzio, vane
 innanti, ch’io non oso, io non ardisco
 di moverle parola.
 MARZ.
                                    O bello amante!
 LUC.
340Sì, per insino ch’io riprendo ardire.
 MARZ.
 Che vuoi tu ch’io le dica?
 LUC.
                                                Ch’io vorrei
 [144] forse non saprò dire.
 Non so, tremami ’l cor, trema la lingua.
 Dille quello che vuoi.
 SERV.
                                         Fanno consiglio.
 MARZ.
345Ninfa bella e gentil, s’unqua pietade
 d’un misero pastor ti punse il core
 e se già mai dell’amoroso foco
 viva scintilla il petto tuo percosse,
 benigna ascolta chi per te si strugge
350e chi per te morendo in fiamma vive.
 LUC.
 S’è vero!
 SERV.
                    Dagli un poco
 la burla.
 LIC.
                   Io son contenta.
 Marzio, mi maraviglio e non so dove
 vogl’inferir con queste tue parole.
355Io non fu’mai cagion ch’alcun morisse
 e mai no ’l voglia il Cielo,
 però non m’accusar se poi non sai
 di chi. Scuoprimi pur l’animo tuo
 e la cagion di queste tue preghiere.
 LUC.
360Debbo accostarmi a lei, Marzio?
 MARZ.
360                                                            Padron,
 innanti, non temere.
 [145] LUC.
 Credi che...
 MARZ.
                        Che?
 LUC.
             Vorà ascoltarmi poi?
 MARZ.
 Come ti ascolterà! Fale tu prima
 un bel saluto et animosamente
365raccontale il tuo ardor.
 LUC.
365                                           Io vo. S’el foco...
 Amor, ninfa... quantunque io debbo... essendo...
 mi prese... Marzio?
 MARZ.
                                      Ahimè, non ti smarire,
 accostati da lei.
 LUC.
                               Dal terzo cielo
 le lacrime ch’il viso guardo... Marzio?
 MARZ.
370Io son qui.
 LUC.
370                      Di’, questo principio è buono?
 MARZ.
 Sì, che se pria non ti voleva bene
 or non vorà vederti.
 LIC.
                                       Pastor caro,
 altro non vuoi da me?
 LUC.
                                           Marzio, rispondi.
 MARZ.
 Oh, veh, come son bene oggi intricato!
375Ninfa, il maggior e più evidente segno
 del ver amore che costui ti porta
 con efetti el conosci, né che giunto
 alla presenza tua come che privo
 sia di senno o di lingua non ha forza
380di scoprirti il suo male, anzi tremante
 con cenni chiede al suo dolor soccorso.
 LUC.
 Oh, buona! Oh, come Marzio dice bene!
 [146] Segui, pari un Orfeo!
 SERV.
                                                    Oh, caro amante!
 LIC.
 Marzio, non credo e non crederò mai
385che questo tuo patron m’ami, m’adori,
 come tu dici, perché s’ei m’amasse
 ho udito a dir ch’Amor fa l’uomo ardito,
 animoso all’imprese e non lo rende
 muto, insensato, vil, senza discorso.
 MARZ.
390Rispondele, patron.
 LUC.
390                                      Non solemente,
 leggiadra ninfa, a la tua bella vista
 un ferito qual io, miser pastore,
 senz’alma resta, senza core o lingua,
 ma Febo a tanta maraviglia intento
395e l’usato sentier sovente perde;
 Giove a tanto splendor stupido resta
 né sa se ’l vero sol sia in cielo o in terra;
 Marte deposta giù l’ira e la spada
 umil t’inchina e Vener sua si scorda;
400Diana casta le sue belle ninfe
 a te lascia in governo e in cielo alberga,
 [147] ché conosce di sé te via più degna.
 Ma che dirò d’Amor, ch’a li tuoi piedi
 posto giù l’arco, la faretra, i strali,
405giace fato pregion de’tuoi begl’occhi?
 Dunque s’il mar, la terra, i dei del cielo
 al tuo bel’aparir rimangon vinti,
 non ti maravigliar s’anch’io meschino
 da tanta e tal beltà ferito e preso
410vicin al foco al maggior caldo agiaccio
 et al maggior bisogno il parlar perdo.
 MARZ.
 Oh, egli è destato.
 LIC.
                                    Se sapesti quanto,
 Lucenio, i passi e le parole
 per seguirmi tu spendi, io son sicura
415che prenderesti assai meglior partito
 che di noiarmi; ma per trarti fuori
 di quel desio che ti consuma et arde,
 ti fo saper che dal mio patrio nido
 tre anni son che peregrina errando
420sol per fuggir Amor mia vita passo.
 Et ora credi tu che così sciocca
 fosse che avendo e sprezzato e fuggito
 [148] l’amante mio, se pur nomarlo amante
 io mi debbo o mi voglio, che già tanto
425per me sì dolce è al fin, per la mia fuga
 e per mia crudeltà giace sotterra,
 che ad altro amore io mai volgiessi il core?
 Mai non lo voglia il Cielo! Et or Dïana
 prego, poi che colui, che tanta fede
430mostrò, d’amarmi ebbe per guiderdone
 la morte, ch’anco a me la morte doni
 se ad altro amante mai gl’occhi rivolgo.
 Sì che lascia, pastor, lascia l’impresa,
 cessa di darmi noia già ch’a pieno
435t’ho ’l mio voler et animo scoperto,
 e pria le stelle andran per monti errando,
 faran dolce armonia gl’alberi e i sassi,
 che questo mio voler si cangi o muti.
 MARZ.
 Eh, come nel principio ci burlava!
 LUC.
440Se ben, ninfa crudel, maggior tormento
 che l’istesso morir m’hanno apportato
 [149] questi ostinati tuoi perfidi accenti,
 se ben sicuro son che di due spoglie
 d’amanti tosto andrai superba e lieta,
445non posso far ch’io non t’adori et ami.
 Ma ti vo ben pregar che tu, sicome
 del primo amante tuo pur ti ramenti,
 che del secondo ancor memoria tenghi,
 miser non men di quel, non men fedele,
450e quando udrai della mia vita il fine
 prego sciogli la lingua in questi accenti
 e di’: ” Lucenio per Licinia è morto ”,
 ché fiano all’alma mia di tal conforto
 queste parole ch’io felice e lieto
455nel sempiterno oblio chiuderò i lumi.
 LIC.
 Vivi pur tu, pastor, che di morire
 non hai ragion e men colpa m’ho io.
 Andiam.
 MARZ.
                    Sète ancor voi su quel’umore?
 SERV.
 Peggio, peggio di lei, lassa, mi trovo.
 MARZ.
460Andate, dunque, sète accompagnate
 non senza gran cagion. Patron mio caro,
 hai forse fatto il pensier c’ho fatt’io?
 [150] LUC.
 Ahimè, vuoi che sapp’io l’animo tuo?
 ARZ.
 L’animo mio è di lasciarla stare.
465Quell’altra Servia, se non mi vol bene,
 sarei ben pazzo farle il morto dietro.
 Forse che non è più di venti giorni
 ch’io mi struggo per lei.
 LUC.
                                              Ah, Marzio,
 non sei ferito e preso da dovero,
470ché non t’avresti così tosto sciolto!
 MARZ.
 Patron mio caro, ho certo naturale
 ch’io m’innamoro molto bestialmente,
 ma come veggio che queste cagnaccie
 non fan conto di me, subito tosto
475l’amor mi cala in men di cinque giorni.
 LUC.
 Felice amor se tanto poco dura.
 Ti doveresti innamorar allora
 cinque o sei volte.
 MARZ.
                                    Purché mi venisse
 l’occasion.
 LUC.
                      Ohimè, che far mi deggio,
480Marzio?
 MARZ.
480                  Lasciala star com’ho fatt’io.
 LUC.
 Invan ragioni.
 MARZ.
                             Io non saprei che fare.
 [151] LUC.
 Voglio irle dietro.
 MARZ.
                                   Questa è una pazia.
 LUC.
 Come pazzia?
 MARZ.
                             Pazia, ché tu non sai:
 le donne fatte son com’il buttiro,
485che chi lo mena più tanto più indura.
 LUC.
 Seguimi pur.
 MARZ.
                            Oh, sono uscito
 del mio gran travaglio a snamorarmi ogi!
 
 
 Atto IV Scena VI
 
  486 Ermilla sola.
 
 Che ti resta oggimai, misero Ortigio,
 di speme d’ottener quel che desii?
490Nulla, ché son per te tutte sommerse
 nel mar di crudeltà le tue speranze.
 Ho pur con queste mie dolenti orecchie
 udito il gaudio che quella inumana
 di Licinia, o per dir meglio Carilla,
495ha della nuova di mia morte fatto.
 A che più rittener queste mentite
 spoglie, infelice? Perché più nomarmi
 Ermilla, se al mio mal pena maggiore
 han giunto queste vesti e questo nome?
500Ahimè, sapessi pur come far certa
 [152] quella crudel ch’io son lo sfortunato
 Ortigio e innanzi a quegl’occhi ferigni
 con le mie proprie man trarmi di vita,
 che parmila veder gioiosa e lieta
505ir de mia morte altera.
 Cor, che già tanto e tanto tempo fuori
 di ouesto ardente petto in foco vivi,
 ritorna omai a l’infelice albergo,
 perché non è ragion ch’essendo stato
510cagion di tanto mal t’in vadi senza
 la tua parte di penna.
 Ritorna, dico, e in te ricevi tutto
 il guiderdon che di tua tanta fede
 quest’infelice destra dar ti brama.
515Tu, patria mia, che ne la prima etade
 de’floridi anni miei felice e cara
 mi fosti tanto, or ti rallegra e godi
 che non vedi di me l’ultimo giorno
 [153] e che colei, che sola nel tuo seno,
520fera crudel del sangue umano, è nata,
 lunge dagl’occhi tuoi sua rabbia adopri.
 Colli Euganei felici, raccogliete,
 raccogliete pietosi gl’ossa mie,
 sicome ancora i duri miei lamenti
525e le lacrime mie raccolte avete.
 Empite, aure soavi, aure gradite,
 di questi ultimi accenti
 l’aria d’intorno, acciò ch’Eco percossa
 da’vostri fiati il mio morir palesi.
530Quanto mi spiace sol ch’al mio morire
 non è presente la crudel Carilla
 o persona ch’a lei parlar potesse
 che io sono Ortigio. Ohimé, che son sicuro
 che a queste afflite membra
535come membra d’Ermilla
 vorrà dar pianto e sepoltura insieme,
 né saprà ella che d’un suo nemico,
 d’un amante fedel piangerà il caso!
 Gareglio mio, se ritornasti mai
540[154] nel tuo primiero stato e che sapesti
 il mio infelice e sfortunato fine,
 ti prego, ahimè, che s’alla patria torni
 tu raconti al dolente padre mio
 l’alta cagion della mia acerba morte.
545Felici piaggie, ov’io morendo lascio
 colei che del mio mal tanto gioisse,
 custoditela ben, di lei godete,
 ch’io per patir non mille mille morti
 ma questa sola eterna oggi vi lascio.
 
 
 Atto IV Scena VII
 
 548 DRUSC.
550Oh, oh. Compagna, buona notte. Vo’
 dir bon giorno. Oh, che sei omo?
 ERM.
                                                              Vanne
 per la tua via né m’impedir la morte,
 caro pastor.
 DRUSC.
                         Oh, tu m’hai colto in falo.
 [155] Non son pastor, io son Druscillo.
 ERM.
                                                                       Or sia
555che tu ti vogli, lasciami morire.
 DRUSC.
 Io non ti tocco, veh, da te mi scosto,
 ma pria che mori, cara fratellina,
 fammi un servigio, e come tu sei morta,
 commanda ancora a me.
 ERM.
                                               Come costui
560m’ha rotto ogni dissegno!
 DRUSC.
560                                                Io non t’ho rotto
 dissegno alcun, ch’io sappia. Ben vorrei
 tantino di servigio.
 ERM.
                                      Che voresti?
 DRUSC.
 Mi sapresti insegnar dove che alberga
 un bifolco che aveva un suo patrone,
565che essendo pazzo è ritornato matto
 et io lo vo cercando?
 ERM.
                                        Un ch’era matto
 et è tornato pazzo?
 DRUSC.
                                     Egli era pazzo
 et ora è matto, perch’egli è guarito
 con una donna che facea l’umore.
 ERM.
570L’umore? Io credo che tu sia quel pazo
 pieno d’umore.
 DRUSC.
                               Non son io, no. È uno
 che ha nome... che sta...
 ERM.
                                              Dove?
 DRUSC.
                In questi monti.
 L’abbiam legato, ti so dir, per forza.
 Ha un strano nome: Fameglio, Barbeglio...
 [156] ERM.
575Gareglio?
 DRUSC.
575                    Oh, sier sì. Chi te l’ha detto?
 ERM.
 Ahimè, che lo conosco. E che voresti
 da lui?
 DRUSC.
                Il mio patron voria parlare
 con lui.
 ERM.
                 E che costruto vol cavare
 da quel misero pazzo?
 DRUSC.
                                           Io t’ho pur detto
580ch’egli è tornato mato.
 ERM.
580                                          Così fosse
 tornato savio.
 DRUSC.
                            O sì, sì, savio, savio.
 Avea fallato.
 ERM.
                          Egli è tornato savio?
 DRUSC.
 Saviissimo, savio, ché la corda
 l’ha risanato.
 ERM.
                           Oh, quanta gioia sento
585di questa nuova! Or or morò contento.
 Odi. S’io t’insegno la capanna
 di quel Gareglio, mi farai tu puoi
 un’ambasciata a lui?
 DRUSC.
                                         Molto di grato.
 ERM.
 Odi, digli così com’io ti dico.
 DRUSC.
590Intendo.
 ERM.
590                  Digli Sgareglio...
 DRUSC.
590                                Sgareglio...
 ERM.
 ... lo sfortunato...
 DRUSC.
                                 ... sfortunato...
 ERM.
                             Lascia
 ch’io finisca di dir, poi proverai
 se saprai dire.
 DRUSC.
                             Via, ch’io dirò piano.
 [157] ERM.
 Lo sfortunato Ortigio padovano,
595che vestito da ninfa ha nome Ermilla,
 ti prega molto che trovi Licinia
 e che le dichi che con le sue mani
 per sodisfar a lei si diede morte,
 e che vivo era Ermilla e morto Ortigio.
 DRUSC.
600Oh, non m’hai detto tu la prima volta
 così! Ci è differenza d’un gran pezzo!
 Ora saprò ben dire a punto a punto
 come tu hai detto.
 ERM.
                                    Via, di’presto.
 DRUSC.
                              Ascolta.
 Lo sfortunato Sgareglio che è morto
605ti prega Ermilla che ritrovi Ortigio
 vestito da Licinia e che li dichi
 che dato s’ha per sodisfar la morte
 la vita con Ortigio e con Ermilla.
 Com’io la so parola per parola!
 ERM.
610È peggio la seconda che la prima.
 Dili come tu vuoi,
 purché nomini Ortigio.
 DRUSC.
                                             Ho inteso il tutto.
 Insegnami tu ora dove alberga.
 ERM.
 Vanne per questa via pursempre drito
615[158] sino in Pendice e la prima capanna,
 che tu ritroverai, ivi dimora
 col suo padron Ardenzio.
 DRUSC.
                                                Io ti disgrazio
 e, se tu mori, tienti allegra e sana.
 ERM.
 Vanne felice. Ahi, che se questo scemo
620avrà tanto saper, tanta memoria
 che si ricordi Ortigio, io son sicuro
 ch’il mio Gareglio de mia cruda morte
 arrà vera notizia. Ma che tardo
 pria ch’el m interompa il mio morire?
625Piglia, Carilla, or or piglia l’estreme
 mie fatiche, mie penne or lieta godi,
 che per non ti noiar nel cieco Averno
 ignudo spirto Flegetonte passo.
 
 
 Atto IV Scena VIII
 
 627 ARD.
 Ahi, tu sei stato tardo!
 ERM.
                                           O caro, o fido
630ferro, che tante e tante...
 [159] SGAR.
 Iz, cito.
 ERM.
 ... miglia facesti a me sicura scorta
 col solito valore,
 ora m’apri la via
635che può condurti al core,
 ch’in questo estremo punto
 ti saria crudeltà l’esser pietoso.
 Or sazia del mio sangue
 colei ch’altro non brama.
640Adio, Carilla, adio.
 Adio, Carilla, ecco tua voglia adempio.
 SGAR.
 E là, que fèo?
 ERM.
                            Ahimè, no m’impedire
 la morte a me più della vita cara,
 caro pastor.
 SGAR.
                         Mo la sarae de can!
645Che sìo deventò mato, caro Oltrigo?
 ERM.
 Ah, Sgareglio, fratello,
 se m’amasti giamai
 lascia ch’io mora!
 SGAR.
                                   A’digo ch’a’no vuò
 que qualcun me desse una quarella
650che a’v’ésse mazò mi. Metì zó ’l stoco.
 Cancaro, el ponze. ’L è altro che lardo.
 [160] No ve stè a desperare, cazzé entro.
 Miessì, laghè che ve ghe ’l metti mi,
 ch’a’v’he da dire de le gran smeravegie,
655conse stepe e stopegne!
 ERM.
 So quello che vuoi dir. Non credi ch’io
 l’abbia creduto.
 ARD.
                                Non è questa Ermilla,
 Sgareglio?
 SGAR.
                       Mesier sì. Mo stè ascoltare.
 Che haìu crezù?
 ERM.
                                 La Dina e la Carilla,
660ch’or son Servia e Licinia.
 SGAR.
 M’hìo vezù matto mi?
 ERM.
                                           Non ti ricordi
 se ti trovai a ragionar un pezzo
 teco e piangendo mi ti discopersi?
 SGAR.
 ’L è ben segnal ch’a’sì fuora de zina.
665An, s’a’foesse stò matto da seno,
 ve par mo a vu ch’a’m’arecorderave
 né de vu né d’altri?
 ERM.
                                      O come, dunque
 non eri pazzo?
 SGAR.
                              A’gh’iera e sì no gh’iera.
 A’gh’iera in quanto che a’me gh’aéa fatto
670per descoerzer quel c’ho descoerto.
 [161] ERM.
 Che ti ha giovato el fingerti da pazzo?
 SGAR.
 El m’ha zovò pi a mi che no fa ’l zovo
 a un boaro. No v’hei cognosù vu
 fagando el matto, e Dina e la Barila
675e quel pistore che ha nome Felizzo?
 ERM.
 Felizzo?
 SGAR.
                  Mesier sì.
 ERM.
                      Fidizio, forse.
 SGAR.
 Sì, poh, gh’è un gran debato!
 ERM.
                                                       E ben, chi é egli?
 SGAR.
 Na tosa cota inamorà anca ella.
 ERM.
                                                          Egl’è una donna?
 SGAR.
                                   Dona no, na sgninfa,
 che ha nome Persea, che la xe vestia
680con le braghesse per cercarve vu
 quando geri vestio da pelegrin.
 La s’infrize, la grama.
 ERM.
                                          Questo è vero
 di quella Persea, ma ti siguro bene
 che no l’ho conosciuta.
 SGAR.
                                           Orben, la xe
685morosa del me caro e bel paron
 che xe chialò.
 ERM.
                            Ardenzio è qui presente?
 SGAR.
 Vìlo lialò.
 ERM.
                     Ardenzio, quivi sei
 e non degni parlarmi?
 ARD.
                                            Ermilla, io era,
 per non impedir voi e i vostri dolci
690ragionamenti, retirato alquanto.
 [162] ERM.
 Acostati qui a noi, ch’intenderai
 cose di maraviglia.
 SGAR.
                                     Cancar è,
 veder na sgninfa doentar un omo
 se l’é na smaravegia!
 ARD.
                                         Come un uomo?
695Io non t’intendo.
 ERM.
695                                 Ahimè, così non fusse!
 SGAR.
 V’arecordèo, paron, quando a’ve dissi
 che la parona della me morosa
 scampà da Pava per no vêrse in g’uocchi
 quel so moroso ch’aéa lome Altrigo?
 ARD.
700Io mi ricordo.
 SGAR.
700                            Questo è quel Oltrigo,
 quel poerazzo che ghe vegné drio,
 ch’abiantola catà chialò in sti monte,
 zò que la no ’l cognossa e scampar via,
 de ben in miegio el s’ha vestìa da tosa.
 ARD.
705Oh, amor! Oh, fede! Oh, essempio a quanti mai
 pastor vivranno in amoroso ardore!
 ERM.
 Ardenzio, di’più tosto essempio vero
 di dolor, di languir, di pianti e guai.
 SGAR.
 No ve desperè pi che, s’a’faré
710co a’v’insegnerò mi, a’vuò che tutti
 a’sean continti.
 ARD.
                                Ahimè, se Persea è ita
 [163] per ritrovar Ortigio in altre parti,
 come vuoi che contento esser io possa?
 SGAR.
 Que a no la cateron? Se a’doesse anare
715in la Despiersia, in la Polana, inchina
 de là da dove ven le cisiole,
 a’vuò cattarla e far che la sea vostra.
 ARD.
 Troppo s’induggia.
 SGAR.
                                     Pota, a sì impressolò!
 Laghève un puoco governare a mi.
720Orsuso, Oltrigo, a’vuò che a’comenzan
 dal vostro cao. El bogna ch’a’me butè
 zó ste traverse.
 ERM.
                              Ahimè, come Licinia
 mi vegga, fuggirà tanto lontana
 ch’impossibile fia più ritrovarla.
 SGAR.
725Fè co a’ve dighe mi. Pota, comuò
 possangi aere mo chialò che sagi
 que se ha da toserar bichi e castron
 in fuora?
 ERM.
 Che voresti?
 SGAR.
                          Ma no, no,
730no cade gnan pensarghe.
 ERM.
730                                               Oh, dimmi un poco
 ciò che voresti.
 SGAR.
                              Poh, se ben a’ve ’l digo,
 gno muò n’in cateron.
 ERM.
                                           Il dire che costa?
 SGAR.
 A’vorae che aesan na de ste barbe
 [164] che se fa sul Pavan da nu, pustizze.
 ERM.
735Di che color?
 SGAR.
735                          Verde, azura o rossa,
 de qualche sorte.
 ERM.
                                  Quando da la patria
 per cercar quella ingrata io mossi il piede,
 molto tempo n’andai da pellegrino
 vestito e qui in Euganea ancora meco
740l’abito tengo e v’è la barba ancora.
 SGAR.
 Dîo vero? Osù, ch’a’seon, co disse Magio
 quando el se fé noizzo, a cavaletto!
 Andè mo alla capana
 e trè zó le gonelle
745e vestìve co a’dì da pelegrin
 e spitème lialò, che a’vegnerè
 a catarve. Paron, anè con elo,
 che a’vogio anar a vêre se a’so catare
 la Persa. Aldì, metìve el barbuzale
750ch’a’no siè cognossù.
 ERM.
750                                        Non dubitare.
 ARD.
 Vuoi ch’io vada con lui?
 SGAR.
                                              No ve l’hei ditto?
 E spitème al cason, no ve partì
 se a’no vegno là an mi.
 ERM.
                                             Faremo ’l tutto.
 [165] ARD.
 Sgareglio, in mano tua sta la mia vita,
755io mi fido di te.
 SGAR.
755                               Pota, che criu?
 Laghème far a mi.
 ARD.
                                     Cercala bene.
 SGAR.
 Mo ben, anè pur via. ’L ha pur paura
 che a’no la cate. Fóssela zà anà
 onve che nasse i ravi, sotto terra!
760A’son, fè conto, co gera quelù
 che [i] gh’aéa metù in berlina, que criava
 a un so compagno ch’el vegnesse aiare
 perque ’l gera intrigò.
 An mi son intrigò. Promitti a questo,
765promitti a quello e Dio vogie po que
 a’no faghe de quel de Begio Rulo,
 che per un tron el faéa segurtè
 de dies ducati a chi gh’i domandava,
 e con ’l ave guagnò purazzà bece,
770que vene el tempo que ’l deséa pagare,
 el muzé via e sì laghé su l’usso
 del so cason un breve che diséa:
 “ Quei ch’è stà segurè da Begio Rulo,
 [166] che crezanto oselarlo è stà oselè,
775co le so segurtè se forba el culo ”.
 A’farè così an mi: co averè ben
 prometù e che a no posse
 far gnente, a’torè suso el me grabato
 e a’tamburlerè via con la Dina,
780e sì lagherè scritto sul me usso
 ste letre tanto longhe che dirà:
 “ O inamorè c’hi bio tanta speranza... ”.
 Cancaro, la sarae puo’de copella!
 Onv’è Sgaregio? ’L ha fatto de quello
785che fa i sbigati, ’l ha fatto le alle.
 A’son ben purpio alla condizion
 de quî vermiti: quando a’gera a Pava
 con la me Dina, a’gera el cavaliere
 sì sasonò, norìo, sì pien de séa
790che, chi m’aesse tocò sotto la panza
 con fa ste done, aerae butà la bava
 E la Dina me messe a laorare
 e intanto che a’faseva la galetta
 [167] la me messe via e mi restié un bigato.
795El mancava lomè ch’i me metesse
 a solegiare con la panza al sole,
 che ’l bigato sarae secò anca elo.
 La me desgrazia vose ch’a’vivesse.
 Se a’deventasse adesso mo un pavegio
800e che a’sbusasse da un cao la galetta
 de la me cara Dina, che m’ha tanto
 tegnù in preson, e che a’muzzasse via
 con ella, no poràegi aere care
 tutte le strusie, tutte le faìghe
805che a’g’he fatte, che a’fazzo e ch’a’farè
 per quel caro museto? U’sónge andò?
 Tru, bo, va’in carezà. Mo a’gera insù
 fuora de caveagna. Se a’me altrigo
 a rasonare, a’so ch’a’anarò a fare
810quel c’ho da fare per el me paron,
 a catar la so Persa. Orsuso, a’vago.
 Uh, mo n’èla un de quigi che ven là?
 La xe ben ela. N’èla? Sì, l’è ela
 [168] Poh, che ventura! Quando che a’vegnìa
815de quence sta matina ’n oseletto
 me caghé sul capello. È lo mo stò
 un bon ingurio? Orsù, que ghe dirèto,
 Sgaregio? Da qual cao scomenzerèto?
 A’me spuo su le man. Poh, oh, que riso!
 
 
 Atto IV Scena IX
 
 817 SGAR.
820A’me sento crepare. Mè pi al mondo
 no s’ha aldio na noela. Pota, puh,
 l’è granda!
 FID.
                       Ecco quel pazzo, quel bifolco
 d’Ardenzio.
 VEL.
                         Oh, questo è pazzo?
 FID.
 E di che sorte!
 SGAR.
                              Star vestio da tosa
825e esser ’n omo maschio, poh, poh, poh!
 FID.
 Che ragiona costui?
 VEL.
                                       Qualche pazzia,
 che vuoi ch’ei dica?
 SGAR.
                                       Poh, mo che gran strusio!
 Se quella sgninfa che g’ha lome Persa
 el saesse, che el fosse chivelò,
830coreràvela a catarlo?
 FID.
830                                       Che ragiona
 costui de Persea? Ohimè, voglio acostarmi
 [169] a lui.
 SGAR.
                        Tuoge mo su el me paron
 quel che ’l arà guagnò a no volere
 che a’staghe pi con elo! Hal mo catò
835de dir che a’gera, per mandarme via,
 deventò mato? Orben, a’m’he catò
 un paron pi moreole e maregale
 innamorò que a’séa in la Luganega.
 FID.
 Costui, Veletria, non par a me pazzo.
 VEL.
840Parmi che parli in seno.
 SGAR.
840                                             Poh, que berta,
 an?, que lagarlo governar ste sgninfe
 vestìo così! Oh, oh, m’hagi mo aldìo
 costoro? Eh, eh, eh, bon dì, fradiegi.
 FID.
 Bon giorno, il mio bifolco. T’è passata
845la fantasia, l’umor che avevi in capo?
 Tu non rispondi?
 SGAR.
                                   Que, disìu a mi?
 FID.
 A te io dico.
 SGAR.
                         A’me guardava a cerca
 per vêr ch’iera quelù che aéa lome
 Beforco. Pota, mo che stragno lome!
 VEL.
850Tu non sai quel che voglia dir bifolco?
 SGAR.
 Mo dona no, mi. Beforco?
 FID.
                                                 Bifolco
 vol dir colui che ha guarda degl’armenti,
 [170] del gregge, un servo.
 SGAR.
                                                   Un famegio, n’è vero?
 FID.
 Sì, si.
 SGAR.
              Aldì, co a’me volì chiamare,
855o disìme Sgaregio, che è ’l me lome,
 o disìme famegio, ma quel lome
 de quel Beforco no me ’l dì mè pi.
 VEL.
 Tu hai ragion.
 FID.
                             Come sei ritornato
 nel tuo primiero stato?
 SGAR.
                                             Oh, que dirègi
860comuò che a’son tornò? Tornò de que?
 FID.
 Non ti ricordi? Tu sei stato pazzo,
 ch’io t’ho veduto far le maggior cose,
 le più estreme pazzie.
 SGAR.
                                           Mo el me paron
 sì m’ha ben cazò via con dir que a’gera
865doentò mato, mo mi a’n’in so gnente.
 FID.
 Adunque tu non stai più con Ardenzio?
 SGAR.
 No, mesier no.
 VEL.
                              Con chi dimori adunque?
 SGAR.
 Con un de sti pistore.
 FID.
                                          Che ha lui nome?
 SGAR.
 ’L ha lome... N’hal na lome...? El no xe massa
870[171] tempo che ’l è chialò.
 VEL.
870                                                  Pur, che si chiama?
 SGAR.
 L’iera na sgninfa, elo. Miessì, el m’ha
 dito che a’no l’apanda con negun
 per amor que... Orsù, m’areccomando,
 perdonème que a’vuò narlo a catare.
 FID.
875Odi, fermati un poco.
 SGAR.
875                                         A’no ve ’l posso
 dire. La ghème anare.
 FID.
                                           Ho pur udito
 c’hai nominata or ora certa ninfa
 che ha nomne Persea. Come la conosci?
 SGAR.
 Vu a’m’hi aldìo? Comuò? Quando? A’volì
880cavarme fuora... Ma vi’, a’son da Pava,
 che m’haì o per poliero o qualivo?
 FID.
 T’ho pur udito, ché ti stava dietro
 quando che fra te stesso ragionavi.
 SGAR.
 El poerae stare. Aldì, perqué a’m’hi ciera
885d’esser un om che n’è fato co è gi altri
 sbagiafaore, a’ve vogio contare
 chi è sto me paron e an chi ’l iera
 inanzo ch’el doentasse me paron,
 e chi è quella Persa. Ma, vì, cito,
890que mal biò mi, vezì!
 FID.
890                                         Non dubitare.
 [172] Fa’conto avere nel terren sepolto
 queste parole.
 SGAR.
                             Volìo que sta sninfa
 senta anca ela?
 FID.
                               Sì, non dirà nula.
 SGAR.
 Dio ’l vogia. Dirìo gnente?
 VEL.
                                                  Nulla mai.
 SGAR.
895Mo scoltè tonca, poh, la bella bota.
 Cognoscìvi una certa de ste sgninfe
 c’ha lome Milia?
 VEL.
                                 Ermilla?
 SGAR.
                    Dona sì.
 FID.
 Sì che la conosciamo.
 SGAR.
                                         Mo que crio,
 che la fusse na donna?
 VEL.
                                            Ma che vuoi
900che sia?
 SGAR.
900                 Che a’vuò ch’el sia? Mo ’n omo maschio!
 FID.
 Ahimè!
 VEL.
                  Mi pare un pazzo.
 FID.
                                    Taci un poco.
 Ermilla non è ninfa?
 SGAR.
                                         Misier no,
 l’è ’n omo che gera incotolò da tosa
 per cercar per sti monti una morosa
905que ’l aéa perdù e, azzò che quella Persa,
 ch’iera na sninfa che ghe voléa ben
 ma elo no la vuò vêr con d’i vuocchi,
 no ’l catesse mè pi e darghe impazzo,
 el s’ha vestìo da tosa.
 FID.
                                         Ah, Ortigio ingrato!
910[173] Com’ha nome costui?
 SGAR.
910                                                    ’L ha lome... A’guardo
 pur se qualcun de fuora via sentisse.
 FID.
 Non vi è persona alcuna.
 SGAR.
                                               Butè via
 gi vuocchi se a’vì negun.
 FID.
                                                Eh, non vi è alcuno.
 SGAR.
 A’sento no so chi. M’areccomando
915un’altra bota.
 FID.
915                           Ascolta. Oh tu non vedi
 che siam soli noi tre?
 SGAR.
                                          L’importa massa.
 A’dì la vostra, vu.
 FID.
                                    Dimmi c’ha nome
 e poi pàrtiti.
 SGAR.
                          Fève a pè de mi.
 VEL.
 Ecco.
 SGAR.
             Anca vu.
 FID.
                   Così?
 SGAR.
              No, a’pesè massa.
920Stè pur sora de vu. ’L ha lome Ortigio.
 FID.
 Ortigio, ahimè!
 SGAR.
                                Altrigio, mesier sì.
 FID.
 Deh, non mi meraviglio se vestito
 da ninfa io lo seguia. Ben, ha trovato
 questa sua donna ch’ei cercando andava?
 SGAR.
925Mo ’l l’ha catà. La xe quella Lucinia
 che a’g’he vezua con vu purassè bote.
 FID.
 Licinia?
 SGAR.
                   L’è ben ela. El l’ha cercà
 pur purassè tanto ch’el l’ha catà
 chialò in Venda no xe gnan du dì.
 FID.
930Credi tu che Licinia ami po lui?
 [174] SGAR.
 Mo, ah, que sagi po mi i fati suò?
 FID.
 Ahimè, che costui ride. Ahimè, che temo
 ch’ella il mio ben non goda!
 VEL.
                                                     Deh, che l’altre
 trovano al suo gran mal qualche rimedio
935et io nel foco agiaccio. Ah, mio Fidizio,
 della crudel Licinia essempio prendi.
 SGAR.
 Te porè fregolare!
 FID.
                                    Ahimè, Veletria,
 ch’io sto peggio di te! Di quella Persea,
 Sgareglio, ha mai saputo Ortigio nova?
 SGAR.
940A’crezo que ghe sia stò dito a punto
 ancuò da un, che a no so chi el séa stò,
 que l’è morìa.
 FID.
                             Ardenzio è stato questo.
 Adunque è morta?
 SGAR.
                                     Puh.
 FID.
            Deh, così fosse,
 ch’io sarei fuor di pena!
 SGAR.
                                              Que pianzìo?
945V’hai forsi ispina o cazzò qualche
 scataron int’un pè o pur ve duole
 la panza?
 VEL.
                     Che hai, ben mio, che così piangi?
 FID.
 Megl’è che per trar fuor de tanto ardore
 Veletria e per trovar al mio gran male
950qualche ristoro almen ch’or mi discopra.
 [175] SGAR.
 Vi, s’a’posso qualconsa... A’no son miego
 che se a’g’hi male a’ve sapia guarire
 ma doverème in quello che a’son bon,
 m’arecomando.
 FID.
                                Ahi, che se tu sapesti
955di questo mal sanarmi, medicina
 miglior di te né medico più raro
 la mia piaga trovar già non potria!
 SGAR.
 Miego? Mo no, a la fe’da frello, vì,
 che a’n’he mai provò miegar negun.
960A’gh’éa ben na bota na manzeta
 ch’éa male in su la schina, a’la tegnéa
 onta con l’ogio caldo da magnare,
 ch’el m’iera stà insegnò; ma de
 per conto po de dire de ceruoti,
965da tante, da siruopi, d’ontaure,
 de miesine, borsete, folesiegi,
 a’n’in sè gozzo.
 FID.
                               Ahimè, non sono questi
 rimedii buoni al mio incurabil male!
 SGAR.
 Pirole? No.
 FID.
                        Non so quello che voglian
970dir cotesti tuoi nomi che tu hai detto,
 ma so ben ch’el mio mal altro socorso
 [176] chiede, e se tu volessi, dar me ’l puoi.
 SGAR.
 Tonca el sta a mi a darvelo? Mo aldì.
 Se mi a’ve posso aiare de cotale,
975vì, co disse colù, d’alturio, a’son
 chialò, pur che a’no dovre fieri, ordigni,
 che a’no sapie overare.
 FID.
                                             Io vuò che adopri
 se non parole.
 SGAR.
                             Puh, vì, de parole
 un milion!
 FID.
                       E così mi prometti.
 SGAR.
980A’ve prometto e sì a’ve straprometto,
 dème chialò la man.
 FID.
                                        Piglia.
 SGAR.
               Dè qua.
 Ghe n’è che ve la toca,
 la man, che po vorae vêrla mozzà.
 L’è molesina.
 FID.
                            Vuò che me prometti
985de tenirmi celato.
 SGAR.
985                                  Mo el se ten
 inselè le cavale!
 FID.
                                Io voglio dire
 secreto.
 SGAR.
                  An sì, mo faelè così
 da talian. Fè conto a’son quel sasso.
 FID.
 Veletria, ascolta, ch’io ti voglio or or
990sanar della tua piaga.
 VEL.
990                                         Or tu vuoi
 [177] farmi felice?
 FID.
                                     Sì.
 VEL.
         Lodato Amore,
 che dopo tanti guai, tanti tormenti,
 nel maggior disperar lieta mi fece.
 SGAR.
 A la fe’, tosa, te crerè scapare
995un maron, ma ’l sarà mo na castagna.
 FID.
 Sapi, Sgareglio mio, tu, mia Veletria,
 ch’io non son forse come voi credete
 pastore né Fidizio è il nome mio.
 VEL.
 Non sei pastor?
 FID.
                                No.
 VEL.
           Nemen Fidizio?
 FID.
1000No.
 SGAR.
1000          Mo chi sìo? Poh, la ghe vol pur brusare!
 VEL.
 Sarebbe mai costui Giove o Mercurio,
 qualche celeste dio?
 SGAR.
                                       ’L è marti, ancuò.
 VEL.
 Non han quegl’occhi un furibondo orrore
 che potesse esser Marte. Amor, più tosto.
 SGAR.
1005Oh, oh!
 VEL.
1005                Dunque che sei?
 FID.
1005                                 Una infelice
 misera ninfa.
 SGAR.
                            Scapa quella bromba!
 VEL.
 Tu sei una...
 FID.
                          Una ninfa.
 VEL.
                       Ahimè, che ancora
 di me ti prendi gioco.
 SGAR.
                                          El no xe un oco,
 l’è un’occa. An, sì na sgninfa?
 FID.
                                                        Ninfa.
 SGAR.
               Dona,
1010a’vuogio dire, co xe giusta st’altra?
 FID.
 Son donna come lei, ferita et arsa
 [178] del piìu bel pellegrin ch’abbia l’Euganea
 e per lui longe dal mio dolce albergo,
 mutato nome e panni, errando vivo.
 SGAR.
1015Mo mi ghe ’l crezo senza stare a vêre.
 VEL.
 Com’esser può? Ahimè, fai per burlarmi?
 FID.
 Così non fosse! Io son la sfortunata
 Persea, che per seguir l’orme d’Ortigio
 e per fuggir l’innamorato Ardenzio
1020mutai nome, vestir, loco e fortuna.
 SGAR.
 Vu sì la Persia? Quella ch’el paron,
 che a’stago, va scapando?
 FID.
                                                  Io son colei.
 SGAR.
 Doh, poereta, el ve vuol un gran male,
 perdonème.
 FID.
                          Io altretanto l’amo e adoro.
 VEL.
1025A pena parmi ch’io creder lo possa.
 SGAR.
 No geri vu partìa de ste montagne
 per anarlo cercanto?
 FID.
                                        Era partita
 ma, comne gionsi nel fiorito cole
 di Schivanoia, io mi sentî chiamare
1030[179] da una voce su a l’alto, su quel monte
 che spunta da Pendice e fa un dirupo
 ne la profonda valle. Io levo gl’occhi
 e veggio ascesa su quel erto scoglio
 Veletria che mi chiama e così dice:
1035“ Fidizio, o nel partir teco mi mena
 o qui rimani o ch’io di questo sasso
 per non star senza te gettar mi voglio! ”.
 Io stupida rimasi e tra me stessa
 considerando come trar potessi
1040costei di doglia e ritornar anch’io
 al mio vïaggio, al fin dietro mi volsi
 et in sua compagnia me ne tornai
 in questo amaro a me venereo colle
 per scoprirmele donna e trarla fuori
1045di quel desio che fuor d’ogni ragione
 giovane e bella la menava a morte.
 SGAR.
 Tonca a’volevi fare sì bel salto?
 VEL.
 Così l’avess’io fatto!
 SGAR.
                                       Poh, st’Amore
 fa pur vegner le stragne fantasie
1050e tira pur agnora inte ’l far male!
 [180] Vì, mo el besogna pur che a’v’arpasè.
 Che ghe volìo mo fare? L’è na tosa
 an ela co a’sì vu.
 VEL.
                                  Et io per tanto
 non resterò d’amarla e riverirla
1055come prima facea.
 SGAR.
1055                                    Poh, da sorella,
 a’no vuò dire, ma
 st’amore mo no anarà massa in entro.
 FID.
 Caro Sgareglio, questo traditore
 d’Ortigio m’odia tanto?
 SGAR.
                                              El ve vol male.
 FID.
1060Gode egli de Licinia?
 SGAR.
1060                                         A’crezo squaso
 de sì.
 FID.
              Ahimè!
 SGAR.
                  A’g’he dò na ferìa.
 Cancaro, la se torze.
 FID.
                                       È molto tempo?
 SGAR.
 A’ve dirè, a’crezo que el no l’abbia
 ancora... A’vuò mo dire, saìo?, sposà.
1065De rasonare, de zugare insembra
 a’gi ho vezù. A’crezo che sta sera
 ’l abbia ordene con ella de menarla
 al so cason e far sta sera nozze.
 [181] FID.
 Oggi di sera?
 SGAR.
                            Donna sì.
 FID.
                     Ah, dolente
1070Persea, che far ti resta? Ah, mio Sgareglio,
 giutami se puoi, se non ch’io moro!
 SGAR.
 Eh là, stè su. Èla morta? Toì de l’acqua,
 serore, in quel fossò.
 VEL.
                                        Non veggio acqua
 in alcun luogo.
 SGAR.
                              Mo pisèghe in g’uocchi.
1075Doh, poereto mi!
 VEL.
1075                                 Ah, Persea mia,
 risvegliati!
 SGAR.
                       La pesa. Aldì, molèghe
 l’avertura del zupon dananzo.
 FID.
 Ahimè!
 SGAR.
                  Stè su de vuogia, aldì scoltè,
 che a’vuò vêr se a’ve posso alturiare.
 FID.
1080Ahimè, come, fratel, vòi darmi agiuto?
 SGAR.
 Cancaro, a sì co è pruoprio el can d’i favri:
 el può sdissiare, e co ’l sente saltare
 na crosta per botega, el salta in pè.
 Co a’hi sentìo a dire che a’ve vogio aiare
1085a’sì revivolìa.
 FID.
1085                            Se tu non sei
 che mi doni la vita, sappi certo
 che senza Ortigio non vivrò già mai.
 SGAR.
 Aldì, che me dà l’anemo de fare
 [182] tanti garbugi, tante garbinelle
1090che a’ve vuò far contenta.
 FID.
1090                                                 Mi prometti?
 SGAR.
 Prometto.
 FID.
                      Far contenta?
 SGAR.
                            Far contenta
 FID.
 Far ch’io mi goda Ortigio?
 SGAR.
                                                   Goda Ortigio.
 Infiève de mi.
 FID.
                             Ma quando poi?
 SGAR.
 Sta sera. Andon, che così caminanto
1095a’ve dirè che cosa a’m’he pensò
 de far per vu.
 FID.
                            Benedetto quel punto
 ch’io ti vidi, Sgareglio.
 SGAR.
                                             Anche de gi altri
 dirà così.
 VEL.
                    Or già che non poss’io
 goder di te, godo io d’ogni tuo bene,
1100Fifizio mio.
 FID.
1100                        Veletria, io ti ringrazio.
 SGAR.
 Orsù, no stemo a far belle parole.
 Andon, che chi vol far che stage ben
 na cosa, bogna ben pensarla imprima,
 ché chi no fa sta sera, a’ón spigò.
 FID.
1105Andiam, sola cagion d’ogni mio bene.
 SGAR.
 Andè pur là.
 FID.
                          Sgareglio?
 SGAR.
                       A’vegno, a’vegno.
 Pota, a’mierito pur esser frustò
 per rufian!
 
 
 Atto V Scena I
 
 [183] MARZ.
 Io ben mi temo che, come andaremo
 a la capanna a trovar li patroni,
 non siamo stati tanto a ritornare
 che ne faran qualche riprensïone
5con un pezzo di legno.
 DRUSC.
5                                          Saria bella.
 Non credo già che ne daran per forza,
 sarebbe troppo gran discortesia.
 Che dici?
 MARZ.
                     Ah, ah, credi che dirà dunque
 il tuo padron: ” Druscillo, sei contento
10ch’io ti batta? ”?
 DRUSC.
10                                Se averà de l’uom da bene,
 mesier sì, lo dirà, ché non si usa
 batter alcuno mai contra sua voglia.
 MARZ.
 Ove t’avea mandato?
 DRUSC.
                                         A ritrovare
 il servo d’un padron che sta con lui.
 MARZ.
15Ardenzio n’è?
 DRUSC.
15                            Sì, lui è il suo patrone.
 Pazzo, quello è Garbuglio.
 MARZ.
                                                 Che, Gareglio?
 DRUSC.
 Sì, che m’avea pregato ch’io facessi
 una risposta pur da parte sua
 a quel Garbeglio.
 MARZ.
                                  La trovasti morta
20[184] e ti pregò che facesti a Sgareglio
 un’ambasciata? Oh, va’, che tu sei pazzo!
 DRUSC.
 Sei pazzo tu. Se l’avesti veduta
 com’ho fatt’io, tu me lo crederesti.
 MARZ.
 S’io l’avessi veduta morta?
 DRUSC.
                                                   Morta.
 MARZ.
25A ragionar? Io non lo crederia,
 e vuoi ch’io ti dia fede?
 DRUSC.
                                             Vuoi ch’io giuri?
 Per tal segnal mi disse: ” Mio Druscillo,
 ritrova Ortigio e dile che Sgareglio
 travestito da omo a nome Ermilla
30che avea sieco Licinia e ch’egli morto
 non era lui e che vivo era un altro ”.
 MARZ.
 Non capirebbe questo tuo parlare
 l’oraculo di Apolo.
 DRUSC.
                                    È così a punto.
 MARZ.
 Andiamo a ritrovar, caro Druscillo,
35i padron nostri. Tu sei fuor di senno.
 Hai bevuto, d Ardenzio?
 DRUSC.
                                               Ho ben mangiato
 una capra di vino et ho bevuto
 tanto di pane.
 MARZ.
                             Andiam, che tu stai fresco.
 DRUSC.
 Tu non me ’l credi?
 MARZ.
                                      Andiam. Sì, si, te ’l credo.
 
 
 Atto V Scena II
 
 [185] 39 ORT.
40Ch’io finga il negromante?
 SGAR.
40                                                  El zaratan?
 Sì, de questi che dise la ventura,
 che magna stopa e manda fuora fuogo
 dal gargantile. Sì, de sti orborati
 que dise: ” Ti doman sarè apicò! ”.
 ORT.
45Non sono questi che portan dipinta
 una mano nel petto?
 SGAR.
                                        Sì, de quigi
 qu’a’sa dire quanti dì xe in la stemana,
 quel che haì magnò a disnare.
 ORT.
                                                         E come vuoi
 ch’io dica esser capitato quivi?
 SGAR.
50Poh, no sarìo catar qualche noela,
 ch’a’vegnì dal Polente, dal Labruzzo,
 e che a’sì stò butò dalla fortuna
 chialò?
 ORT.
                 Ho inteso.
 SGAR.
                      E comenzège po
 co a’v’he insegnò.
 ORT.
                                    O mio Sgareglio,
55se a lieto fine questa nostra impresa
 ci riuscisse e che a la patria mai
 facian ritorno, voglio
 ogni mio avere teco
 [186] come da buon fratel partir per mezo.
 SGAR.
60O gran marcé. Aldì, mi a’me contento,
 se andon a Pava, che con la me Dina
 a’me daghè un cason co na chiesura.
 tanto que a’possan vivere perqué,
 co a’fusse doentò de sti grameghi,
65a’murirae de fatto.
 ORT.
65                                     Voglia il Cielo
 ch’io goda di Carilla, che del tutto
 il rimanente tu sarai padrone.
 SGAR.
 Mo aldì, no stè chialò, tolìve via
 e anè cercanto se a’poì catarla,
70che a’no vorae que ella s’imbatesse
 vegnir chialò e catarme così
 a rasonar con vu.
 ORT.
                                  Che? Tu vuoi dunque
 ch’io mi parta da te?
 SGAR.
                                         Mo misier sì.
 Lagherìve po vér presto chialò,
75che, se a’la cato, a ghe la menerè,
 perqué, co a’ve metì a rasonare
 con ella a’vogio ben esserghe an mi
 per poerve dar soto.
 ORT.
                                       Parto adunque.
 [187] SGAR.
 Andè, e se qualcun de sti pistore
80v’incontrasse per sorte, fè pur vista
 de no saer chi i sia.
 ORT.
                                      Non dubitare.
 SGAR.
 Mo se a’metto ste faggie in cavagion,
 an no farègi così bella tubia
 co séa stà fata mè? Fè conto que
85a’séa mi ’l cavalaro e le me zanze
 séa le cavale e l’asegio l’amore
 e sti pistore xe i laoraore
 paroni del formento, que i no vé
 l’ora de vér scorlò fuor della spiga
90el gran, que, inanzo ch’i l’abbi arcogìo,
 i g’ha tanto suò, tanto stentò.
 Così sti poereti inamorè
 i no vé l’ora sbater fuora el gran
 que xe le so morose, che gi ha tanto
95fatto menare vita s’anduria,
 sì rabiosa. Orsù via, da valente.
 La tubia è zà mo in l’ara, le cavale
 ha deboto scorlò fuora el peon.
 [188] Valentuomini via, fureghèghe entro.
100Voltè la pagia, vì, ch el cavalaro
 tien grezè le cavale inte le neghe!
 No ve stanchè, che o chi dura lo vence
 o ch’i se gratta i schinchi amaramente.
 A’faren così an nu. Orsuso, a’vogio
105anare a vêr se a’cato quella puta
 che a’g’he ordenò que la traghe zó i drapi
 da maschio e que la torna a regonarse
 da sgninfa, e sì a’no l’he ancora vezua;
 ma co la se abbia rivò de conzare
110i rizzi, la g’ha tante pressaruole
 d’anar da sto so Oltrigo que de fatto
 la vegnerà a catarme e mi pian pian
 anarè a vêr de quenze se a’la vego
 ch’in t’agno muò a’la vogio catare.
 
 
 Atto V Scena III
 
  114 Licinia sola.
 
115Se agl’errori comessi se potesse
 col pianto, col dolersi reparare,
 [189] misera me, tal sorte di dolore
 m’ingombra l’alma ch’io sarei sicura
 esser di tanti e tali fatti miei
120e di tanto mio mal tosto soccorsa.
 Deh, come innanti se mi rapresenta
 quel misero Sgareglio! E che poi penso
 esser di tanto mal stata cagione
 mi si restringe il core
125che venir meno, ahimè lassa, mi sento.
 Morto è per mia cagion quell’infelice
 d’Ortigio per amarmi, et io partita
 son di mia patria et ho lasciati adietro
 padre, madre, fratelli
130e parenti e richezze
 sol per fuggirlo. Or di mia crudeltade
 mi rende il guiderdon sdegnato Amore.
 Ma più quel che mi preme e mi tormenta
 è che della pazzia di quel meschino
135è mia sola la colpa,
 onde ho lui perso e la mia dolce e cara
 Servia in un punto. Or io così soleta
 [190] essempio al mondo di ferina mente
 non son per viver mai né voglia Giove
140che semenza sì ria regni più in terra
 per infettar di crudeltade il mondo.
 O cara Servia mia, deve sei gita?
 Chi mi chiuse questi occhi acciò potessi
 da me involarti? Come puoté il sono
145sotto quel pino aver tanta in me forza
 ch’io della tua partita non m’accorsi?
 Fu crudo Amor, che per più tormentarmi,
 per privarme di te mi chiuse i lumi.
 Deh, almen s’allor li chiusi
150or crudel mi facia
 in sempiterno oblio.
 O patria abandonata, o morto amante,
 o servo mio fedel, o amata e cara
 Servia de’danni mia fida compagna,
155ove vedervi e riavervi spero?
 [191] Non mi doglio del mal che mi tormenta,
 perché per mia cagion, misera, el provo;
 ma ben mi duol dell’innocente mio
 amante morto (e forse ch’egli almeno
160più degl’altri se gode chiara vita
 e ride del mio male);
 ma de Gareglio, che in un mar profondo
 di miserie è rimaso, e de la mia
 Servia, ch’el segue lacrimando, ognor
165mi preme, ché per me sono in tal stato,
 né so come al lor mal rimedio porre.
 Vòli cercando e tal è la mia sorte
 che trovarli non posso, perch’io voglio
 inanti agl’occhi lor finir la vita
170che fu cagion delle miserie loro.
 Puoimi allongarla, Amor, ma tu non puoi
 far già ch’io viva, se a morir disposta
 per trovarli mi parto erante e sola.
 
 
 Atto V Scena IV
 
 [192] 173 Servia sola.
 
 Chi fia, già che soletta in questi amari
175coli mi trova, che più m’interrompa
 che a mia voglia non sfoghi e dissacerbi
 l’interna doglia? Or chi fia che mi vieti
 il pianto, il duolo, il grido e al fin la morte?
 Non potrai già Licinia, o per dir meglio
180Carilla ingrata del mio mal radice,
 far ch’io non sazii il mio giusto desio,
 se de l’esilio mio, se del mio caro
 Sgareglio pazzo a te ne dono il vanto.
 Non voglio già che gloriar ti possi
185di rittenermi in tanti affanni in vita,
 o ingratta donna, o essempio a quante mai
 vivranno in questa etade.
 Non credo che tra quante il sol già mai
 vide o creò natura di costei
190[193] fosse la più crudel, la più inumana,
 ma ben cred’io che non di sangue umano
 nascesse questa fera.
 Deh, che ben io sapea che a tanto errore
 comesso contra Amore
195vendetta grave e meritata penna
 sopra di me veria, ma antiveduta
 piaga e pensato mal assai men duole.
 Non mi dogli’io che a morte mi condanni
 la malvagia mia sorte
200nel bel fiorir degl’anni,
 ma m’incresse lasciar quell’infelice
 in così tristo e miserando stato
 e per colpa d altrui non per mio fallo.
 Ma se là su nel Ciel tra’santi Dei
205regna giusto voler, pietosa mente,
 pregole almen, poiché a morir disposta
 al torrente vicino
 ho già preso il camino,
 che a Licinia crudele
210[194] di tanto mal cagion faccian sentire
 un solo un solo almen de’miei tormenti,
 ch’io son sicura che saria possente
 a far ch’el precipizio, el ferro o l’onda
 dagl’occhi de’mortali oggi l’asconda.
215Sarian questi i trofei, queste le spoglie,
 queste le caccie e la gioiosa vita
 che speravamo aver per esser fuori
 di nostra dolce patria e caro albergo?
 Questa vitima dunque, o mio fedele
220amante, a te con tanta fede offerta
 acceta e in guiderdon del tuo servire
 non mi bramaste mai né men sperai
 darmiti in cotal guisa ma la sorte
 nemica a’tuo’desiri a ciò mi sforza,
225onde lasciando il lamentar da parte
 seguo l’orme d’Ortigio et al mio caro
 Gareglio apro la via di ritrovarmi
 per le tartaree rive errante spirto.
 
 
 Atto V Scena V
 
 [195] 228 SGAR.
 Miesì, a’no ho zizi.
 SERV.
                                      Pietoso fiume
230fammi di tanto don gioiosa e rica:
 se ’l mio caro Gareglio
 è per gettarsi o pur è nel tuo seno,
 fa’ch’io lo tocchi almeno.
 Prendi, misero amante,
235or gl’estremi saluti
 de la tua cara Dina.
 SGAR.
                                      Dina!
 SERV.
 Ecco, Gareglio è ancora morto?
 SGAR.
                                                           Morto.
 SERV.
 Com’io son lieta, o imago...
 SGAR.
                                                    A’te n’incago.
 SERV.
 ... di colui che non vive...
 SGAR.
                                               Che no vive?
 SERV.
240... son a morir astretta.
 SGAR.
240                                           Mi t’ho stretta!
 SERV.
 Ohimè, chi m’interrompe tanta gioia?
 O cruda man, deh, lasciami morire,
 ch’io vo a trovar Gareglio!
 SGAR.
                                                  On èlo elo?
 SERV.
 Morto, ma vive altrove un’altra vita.
 SGAR.
245La sarae bella! Mo onde?
 SERV.
245                                               Ne l’inferno.
 SGAR.
 Chi ve l’ha dito?
 SERV.
                                 Eco.
 SGAR.
            Mo sto Eco
 [196] xe un furfante che ’l mente per la gola.
 Pota de mi, a’me vuò amazzar con ello
 se a’son vivo!
 SERV.
                             Ahimè, Sgareglio!
 SGAR.
                                    Dina!
 (Si abbracciano.)
 R249 SERV.
250O lieto giorno! O mio caro Gareglio,
 come ti senti dopo tanti e tanti
 travagli e passi per cercarmi sparsi?
 Tu piangi?
 SGAR.
                       Oh que a’me sento el polmon
 que vol tor combiò dal fato me!
255O Dina, pi augurà, pi sfuregà,
 pi cercà da mi gramo che no xe
 tanto osela persa in le boscagie
 de la so cara mare!
 SERV.
                                     O il mio caro Gareglio,
 da me fugito e desïato tanto,
260raffrena il pianto, omai, sgombra la dog1ia,
 reserena la mente. A che più miri?
 Ti par ch’io non sia quella?
 SGAR.
                                                    Sì, ma ’l pare
 que te sii pi slargà que no te geri
 in centura, in le spale. Ti è vegnua
265[197] noria, ti, in ste montagne!
 SERV.
265                                                           Or dunque io
 non sono la tua Dina?
 SGAR.
                                          Mo sì ben,
 ma son co è quello che s’aéa insuniò
 d’aver pissò in lo letto, e sì gh’aéa
 pissò da seno. An mni ne par insunio
270che te sipi chialò, ma ’l è pur vero.
 SERV.
 È vero, ma un puo’più che tu induggiavi
 a tenermi, m’avresti
 ritrovata nel fiume.
 SGAR.
 Mo a’sarae ben vegnù a tempo sì
275a butarme adosso inanzo que
 te foessi fondà, perché vu altre
 femene stè assè andar de soto,
 che a’si buonamen
 co è scarabuotti tutti busi. O Dina,
280Dina, dano d’i dani e don d’i doni
 che g’ha mè bio Sgaregio!
 SERV.
                                                  O mio Gareglio,
 tratto fuori dell’intimo del cuore
 de la tua Dina!
 SGAR.
                              Que è de la Barila?
 SERV.
 La lasciai sotto un pino adormentata
285e via da lei mi tolsi
 [198] acciò non mi turbasse
 così dolce morire,
 ché dolce m’era essendo di speranza
 fuori di rivederti nel tuo lieto
290tranquillo stato e nel tuo buon discorso.
 SGAR.
 Orsuso, andagon via de chive,
 che a’vuogio dirte conse
 ch’importa asè asè a dire.
 SERV.
                                                 Andiamo pure.
 
 
 Atto V Scena VI
 
 293 Persea da ninfa sola.
 
 Se ’l troppo desïar non m’ha la mente
295offesa, parmi omai l’ora prefissa
 che mi diede Sgareglio ch’io venissi
 quivi e aspettassi la venuta sua.
 Deh, Amor, a che m’induci? Ah, desir cieco,
 ove mi meni al mio nemico in preda?
300Se mi riconoscesse, il che potria
 facilmente avenir, che di me fia?
 [199] L’onor mio estinto e più la voglia accesa!
 Vuol Gareglio ch’io vada alla capanna
 d’Ortigio in vece di Licinia sua.
305Et ei sarà così di seno fuora
 che non conoscerammi? Saria scioco
 chi credesse altrimente. Io vo tornare
 a la capanna e por qui questi panni.
 Vinca pur la ragion tanto desio.
310Ma, ohimè, che sarò poi for di speranza
 di più goderlo, se più tardo a dare
 rimedio al mal che mi trafigge il core.
 Vogl’ire, che sarà? Se mi conosce
 e che mi sprezzi, innanti agl’occhi suoi
315finirò questa vita. Non è meglio
 or morir e con mia casta fama
 che macchiata e sprezzata inanzi a lui?
 Questo fia meglio, ma che saprà mai
 Ortigio che per lui qui m’abbia ucisa?
320Voglio dunque ire a lui. Ma tanto tarda
 Sgareglio a venir quivi ch’io temo
 [200] sia scordato di me. Deh, ohimè, che parmi
 veder Licinia già gionta da lui!
 Deh, che se questo fosse,
325misera, che saria della mia vita?
 Ma non credo che sia tanto crudele
 che sì m’abbi scordata. Eccolo a punto
 ch’ei vien. Gareglio?
 
 
 Atto V Scena VII
 
 327 SGAR.
 A’so che a’sì qua a ora,
330mi. A’gh’ariveron.
 PERS.
330                                    Perché? Venuta
 son quando mi dicesti ch’io venissi.
 SGAR.
 Se mo a’crezéa che luxesse la luna,
 ma a’g’ho falò la pata. Mo ’l è un scuro
 ch’el no se ghe vé gozzo. A’g’ho paura
335de romperme un senogio o pur ch’el lovo
 ne magne un de nu du. ’L è megio che
 a’indusian. Osù , doman de sera.
 PERS.
 Ahimè, l’indugio è periglioso troppo!
 [201] Se Licinia vi andasse?
 SGAR.
                                                      A’g’andaré
340vu dopo’d’ella. Che sarà? Gh’aìo
 paura che non vegne an vu la vostra
 volta?
 PERS.
               Ah, Gareglio, vuoi farmi morire?
 Per un poco di scuro non temere.
 SGAR.
 A’digo mi, se a me rompesse el cao,
345un schinco, o che a’me schiapogiasse na ongia?
 Se a’me butasse el naso via de luogo
 o qualche lembro, chi me ’l drezzerae?
 PERS.
 Io.
 SGAR.
         Vu? Mo che saìo vu drezzar slembri?
 PERS.
 Farò per risanarti ogni gran cosa.
 SGAR.
350Se ’l lovo me magnasse?
 PERS.
350                                              Il lupo forse
 l’ucciderò.
 SGAR.
                      Mo sì, che ’l è ligò!
 ’L arà paura de quel vostro assegio!
 Aldì, fè co a’ve digo. Bona sera.
 PERS.
 Non ti partir, Gareglio, che sarai
355cagion della mia morte.
 SGAR.
355                                             Mo Dio guarde!
 Mo almasco catesangi chì qualcun
 che n’impigiasse un candelotto opure
 [202] na luxe.
 PERS.
                             Che vuoi far? Com’è più scuro
 tanto è più meglio, acciò non mi conosca.
 SGAR.
360Mo su, andagon. Ma el vorae esser altri
 ca vu che a’me mettesse in tanto intrigo.
 Vegnìme drio.
 PERS.
                              Io vengo.
 SGAR.
                    Oh la bombarda!
 A’m’he mondà un senogio! Vegnì pian.
 Ma a’vuò tornar indrio.
 PERS.
                                              Eh, andiamo, caro
365Sgareglio, per mio amor soporta un poco.
 SGAR.
 Mo suso, a’vegno. Mo no me tegnì
 sì stretto, che a’no posso pigiar fiò!
 PERS.
 Ti lascio.
 SGAR.
                    El lovo, el lovo!
 PERS.
                              Non è nula.
 SGAR.
 El m’aéa parso.
 PERS.
                               È a imaginazione.
370O Amor, porgimi ardir, forz’e favore!
 
 
 Atto V Scena VIII
 
 369 LIC.
 Di quanta gioia a me, Servia, sia stato
 l’udir che ’l nostro amorevol Gareglio
 sia risanato, tu la puoi vedere
 nel mio viso scolpita.
 SERV.
                                         È ben ragione
375[203] che tu te ne rallegri, ch’in un punto
 hai lo fedel tuo servo e Servia tua.
 racquistati.
 LIC.
                        E me stessa, ch’io ti giuro
 ch’era disposta di morir con voi.
 SERV.
 O felice giornata, o lieto stato
380d’amanti!
 LIC.
380                     II vostro.
 SERV.
380                   Deh, tal di te sia
 la colpa, s’hai l’amante
 e la patria perduta.
 LIC.
 Se rittrattar si può quel che già è occorso,
 mi duole, me ne pento e mentre vivo
385piangerò la mia morte e ’l mio destino,
 né mai fia di Licinia altri signore
 giaché chi ne fu degno in Cielo or vive.
 SERV.
 Ahimè, che tardi dopo il mal si pente!
 LIC.
 Almen venisse qui Gareglio nostro,
390che da lui saperessimo la morte
 d’Ortigio. Ma chi è questo che a noi viene
 con longa barba in abito sì strano
 a queste ore di note?
 SERV.
                                         Essere deve
 qualche viandante ch’averà smarita
395[204] la via ch’al suo camin dritto lo mena.
 
 
 Atto V Scena IX
 
 ORT.
 Deh, s’i vostri desii, leggiadre ninfe,
 ognor prosperi il Cielo
 in questa notte oscura,
 a un pover pellegrin l’incerta via
400che lo conduca di Venere al tempio
 per pietade insegnate e, s’el potete,
 non sarà in me di darvi il guiderdone,
 renderanvelo i Dei di tanto bene.
 LIC.
 Da noi sarati il dritto camin mostro
405che ti guiderà al tempio, ma di grazia
 dinne per cortesia di che paese
 tu vieni e la cagion d’un tal vïaggio.
 ORT.
 Ninfa amorosa, a le dimande tue
 non posso contradire,
410onde dirti convengo
 in parte la cagion del mio vagare.
 [205] Nacqui nella città d’Anternor, chiara
 di nomi illustri, d’opre eccelse e rare,
 in Padoa dico.
 LIC.
                             In Padoa? Ahimè!
 ORT.
                                    Che hai
415che sì sospiri?
 LIC.
415                            Nulla.
 ORT.
415              E d’un tal sangue
 ch’io non invidïai qualunque sia.
 Ma nel più bel fiorir degl’anni miei
 presemi amor de la più cruda e bella
 donna che fusse mai sotto le stelle,
420ond’arsi tutto in amorose fiamme,
 et ella ognor più sorda
 si mostrò a’miei martiri,
 ond’io sprezzato al fin dal dolor vinto
 fuor della patria un sempiterno exilio
425m’elessi, in compagnia meco traendo
 pianti, cridi, sospir, doglie e lamenti.
 Or son diec’anni che morendo vivo
 peregrinando e via più che mai ardo.
 Ma perché ’l praticar varii paesi,
430strane sorte de gente e buone e rie
 [206] apporta all’uom talor oualche virtute,
 capitai nella Spagna, ove in vïaggio
 un altro pellegrin meco s’aggionse,
 qual vedutomi in viso disse: ” Come
435può star che tu sia vivo? ”. A questa voce
 tutto smarimmi e la cagion le chiesi.
 Ei mi rispose e tutto l’esser mio
 mi narò a parte a parte, a punto a punto,
 onde da me pregato egli insegnommi
440in quatro mesi che fossimo insieme
 il predir l’avvenire,
 il passato ridire.
 E nel partir da me mi disse questo:
 “ Tua donna vive, e se rimedio vuoi,
445vanne al tempio di Verere in Euganea,
 ch’ivi ’l ritroverai,
 e di vita e di duolo,
 credilo a me, può trarti
 [207] quel sacro tempio solo ”.
450Così vengo e l’esser mio
 narrato ho in breve. Or voi, che grave cure
 d’amorosi pensieri ingombra l’alma,
 mostratemmi la via ch’al mio camino
 mi conduca alla breve, acciò ch’io possa
455o finir la mia vita o ’l mio dolore.
 SERV.
 Vogliam, Licinia, chieder a costui,
 giach’è indovino, quel che dê avenire
 di noi e quel che ancor d’Ortigio è stato?
 LIC.
 Credi che saprà darne di tal cosa
460raguaglio?
 SERV.
460                      Io credo certo. Dimandianli.
 LIC.
 Deh, se felice in tanto saldo amore
 ti faccia il Cielo, pellegrin gentile,
 racconta a noi delli travagli nostri
 qualche minima parte, e ancor d’il bene.
 ORT.
465Ninfa se prima ch’ora avesti meco
 parlato, non saresti
 fuor di tua patria vanegiando uscita,
 ma puoi ch’è così, dami la mano,
 che saprò forse dirti cosa tale
470[208] dell’esser tuo che meraviglia grande
 sei per averne certo.
 LIC.
                                        Ahimè, volesse
 il Ciel che già quatr’anni teco avessi
 discorso del mio stato!
 ORT.
                                            Meraviglia
 non è se sei crudele, ché de la patria
475ch’io nacqui tu sei e per fuggire
 un amante fedel quivi fugisti.
 LIC.
 Questo è pur troppo vero. Ma l’amante
 mio vive?
 ORT.
                      E questo a che ti può giovare
 s’ancor sei più crudel che fosti mai?
 SERV.
480Forse che tu t’inganni.
 ORT.
480                                           Se vedesti
 l’amante vivo e che più che mai arde
 per le tue rare et uniche bellezze,
 fuggiresti da lui come facevi,
 crudel ingrata?
 LIC.
                               Quel che mi dettasse
485amor e mia fortuna e la sua voglia.
 Chi sa s’ei vive che di me non sia
 e con ogni ragion scordato afatto
 et arda d’odio, ond’arse già d’amore?
 [209] ORT.
 Già t’ho detto ch’ei vive et è più ferma.
490la sua fede e ’l suo amor che già mai fosse,
 e se ben ti fu detta la sua morte,
 ti fu narato il falso.
 LIC.
                                     Adunque vive?
 ORT.
 Vive.
 LIC.
             Lodato il Cielo. Et in qual parte?
 ORT.
 Non sì tosto partisti di tua terra
495ch’ei, come Amor dettogli, dietro venne
 a l’orme tue in questi lieti coli.
 Ti ritrovò il meschino,
 e dubioso ch’ancora
 non fuggisti da lui, da ninfa quivi
500vestito dimorò forse qualch’anno
 seguendoti dovunque il piè drizavi.
 SERV.
 O memorabil fede, o saldo amore
 degno d’un guiderdon d’un tanto merto!
 ORT.
 Qui trattenuto alquanto
505partissi per non star continuamente
 come Tantalo novo in acqua ardendo
 d’inestinguibil sete.
 Dove ch’ei sia non so.
 LIC.
 Non puoi sapere
510dov’ei si trovi opur non me ’l vòi dire?
 [210] ORT.
 Se ti è gratto il sapere io son contento,
 ma pria bisogna ch’io pigli tre tuoi
 biondi capelli e tu altresì miei
 peli di questa barba,
515che faroli un scongiuro e saprò dirti
 dove si trova or ora.
 LIC.
 Pigliar tre mie’capelli?
 ORT.
                                             E tu tre miei.
 SERV.
 Lascialo far, Licinia.
 LIC.
                                        Son contenta.
 Piglia.
 ORT.
               Tenace et amara catena
520con che mi prese Amor, eco ti spezzo
 per legarti più forte in magior nodo.
 Eccoli ch’io gl’ho presi, ora tu piglia
 tre di questi miei.
 SERV.
                                    Pigliali.
 ORT.
                  Or conosci,
 ingrata dona, il tuo fedel amante,
525che over morir per le tue man desia.
 opur teco vivendo
 dopo’tanti travagli e tante pene
 alli tui piè s’en viene.
 LIC.
 Ben vegio, Amor, che chi fuggir si pensa
530la tua nobil catena e ’l tuo bel foco
 [211] erra. Levati, Ortigio, e la tua fede
 ad esser tua mi sforza e quel che mai
 in tant’anni ha potutto nel mio core,
 ch’è la pietade, or in un punto solo
535puote. Dal petto mio quella durezza,
 di ch’era armata, sciolgo e l’odio ardente
 ch’ebbi ver te or in fervente amore
 tutt’è converso e lieta già ne godo
 del più fido amator che veda il sole.
540Levati.
 SERV.
540               Ortigio, omai scacia dal core
 la doglia e ’l pianto e lieto ti rinvesti
 di gioiosi pensier, ché tue speranze
 nel maggior disperar son gionte a riva.
 ORT.
 Tant’è il piacer che questo afflito core
545di tal nova riceve, o mia Carilla,
 ch’è meraviglia che del gran gioire
 l’alma non esca del suo albergo fuore;
 ma perché è in te mio ben tutto converso,
 vivendo tu io vivo, e se fin ora
550son tuo morendo mille volte al giorno
 stato, or tuo vivo e in te sola mia vita
 passerò i giorni miei felici e lieti,
 il che far non sperai se non morendo.
 LIC.
 Sì come l’odio già che ti portai
555gionse all’estremo d’ogn’odio mortale,
 così l’amor, ch’in me nove radici
 va seminando, è già venuto a tale
 che quel che crescerà da st’ora in poi,
 se pur più crescer può, sarà un estremo
560amor sopra di quanti amor fur mai;
 e tanto lieta son d’aver trovato
 te già nemico mio sì caro amico
 quanto tu me, che già tanto mi amasti.
 
 
 Atto V Scena X
 
 [212] 561 SGAR.
 Puuh, gh’in fusse! A’ghe l’he pur zulà,
565sta Persa! Oh mo, che a’vego? Adio, Origio!
 Sta’” po te ne tuò in falo, sì è imbriago ”,
 ah, parona?
 LIC.
                         Sgareglio, se ’l perdono
 [213] si dee a chi si pente dell’errore,
 mille del mio fallir perdoni chieggio.
 SGAR.
570Mo cancar è, daspò che a’m’hi ferìo,
 domandème perdon! Mo a’son sì dolce
 de cuor che a’ve remetto colpa e pene
 e per segnale...
 ORT.
                              O là, che fai, compagno,
 senza licenza mia?
 SGAR.
                                     Chi sìto ti?
575C’heto da far chialò? Deh, tuòte via
 e per to miegio! Guarda chi se vuole...
 ORT.
 Ah ah.
 SGAR.
                Te te ri, an? An, chi è costù?
 SERV.
 Non lo conosci?
 SGAR.
                               Oh, agom ben da far conto
 ti e mi, ladrazza! Spita pur un puoco
580che a’m’abbi destrigò costù da cerca.
 ORT.
 Non mi conosci tu, caro Gareglio?
 SGAR.
 Mo no mi. Perdonème, a’me parì
 un pescaor da borse, ma chialò
 no gh’è guagno.
 LIC.
                                Remiralo un poco meglio.
 SGAR.
585Moa, ’l é giusto costù co è una boazza,
 che con pi la se smissia pi la spuzza.
 Con pi a’’l guardo, el m’ha pi trista ciera.
 ORT.
 Conoscesti tu mai, pria che partisti
 da Padoa, un certo Ortigio?
 SGAR.
                                                    Mesier sì,
590[214] domandè alla parona quanti e quanti
 polastri a’ghe porté da parte soa
 de quel’Oltrigo. An, de que xe de elo?
 L è morto, an?
 ORT.
                              È vivo.
 SGAR.
                Sì, ’l è vivo!
 ’L è morto, frello, a’v’inganè quant’è.
 ORT.
595Ti paro morto io?
 SGAR.
595                                  Mo misier no,
 se a’no m’ingano, no. A’sì vivo, vu.
 ORT.
 S’io son vivo, son quello, il mio Gareglio,
 e in grazia qui della mia bella dea.
 LIC.
 Cosi è, il mio Gareglio.
 SGAR.
                                            Mo l’è n’altra
600tubia, disse Chiocato quando el fo
 bastonò. Aldì, parona, chi v’ha ditto
 che costù è Altrigo?
 LIC.
                                      Non lo vedi, scioco,
 se è lui?
 SGAR.
                   Mo a ve diré la veritè, mi:
 he gran paura che questù sie un giotto,
605qualche gran slegramante che ve vuogia
 far qualche berta. Quasì, Altrigo è morto!
 (Poh, a’i vuò far desperare.)
 LIC.
                                                       A me par quello.
 [215] SGAR.
 Se ’l è ello, tolìvelo.
 ORT.
                                     Che dice
 Gareglio, vita mia?
 LIC.
                                      Che egli non crede
610che tu sii Ortigio.
 ORT.
610                                  Ah, ladro!
 SGAR.
610                     (A’g’he dò
 un puo’de sbaticuore.) An, che desìo
 de i vostri brustroli, grami morosi
 sassinè? ’L è ben ello e mi son mi.
 Catène mo du altri de sta tagia,
615que morusi de azzale a’seon stà sempre!
 LIC.
 Lo confessiam.
 SERV.
                              Quanto più si desia
 e vi si spende la fatica e ’l tempo,
 tanto è più caro quel che puoi s’acquista.
 SGAR.
 ’L è vero. Mo se aesson tirò le calze,
620chi n’arae po reffatto? Orsù, lagon
 el passò da na banda.
 ORT.
                                          Così sia.
 LIC.
 Chi son costor che con quella facella
 accesa vengon or verso di noi?
 SGAR.
 ’N altro bazaro. Aldi, stengi ascoltare,
625che a’sentiron de bello.
 ORT.
625                                             Cheti, adunque.
 
 
 Atto V Scena XI
 
 623 [2l6] PERS.
 Or che da te, crudel, preso ho quel fatto
 che già tanto bramai, vuo’che conosca
 s’io son la tua Licinia. Eccomi, ingratto
 e a me nemico Ortigio.
 ARD.
                                             Già che la fera
630a’miei desir contraria e bella Persea.
 teco m’ha giunto amor, conosci ancora
 se la mia tanta fe’tal premio merta.
 PERS.
 Ahimè!
 ARD.
                  Pregoti dunque, o mia Persea,
 giaché amor e mia sorte al mio gioire
635de quel ferigno cor tanta durezza,
 al tuo fedele e primo amante vogli
 sanar quel cor che già tant’ei t’offerse,
 e s’ostinata alle mie giuste prece
 esser ti pensi ancor, prendi in vendeta
640dell’offesa in mio danno el ferro ignudo
 e in questo petto lo converta e asconda
 quella tua cruda e disdegnosa mano,
 ch’io de qui punto non mi vo’partire
 [217] se non vivo in tua grazia o morto privo.
 PERS.
645Sdegno, pietade, amor, odio, vendeta
 mi combatteno il cor ch’ove mi volga
 non so. L’offesa alta vendeta chiama,
 pietà l’amor mi tira ad esser sua.
 SGAR.
 Mo questo vencerà.
 PERS.
                                      Parmi sognare.
650Il costante servir, la lunga pena
 ponno, Ardenzio, più in me che sdegno od ira,
 e già che con tal arte in tuo potere
 son gionta, io ti perdono e sempre tua
 esser, come tu mio, voglio in eterno.
655Levati.
 ARD.
655               O giorno a me più chiaro e lieto
 de qualunque altro mai scaldasse il sole
 con suoi lucenti rai!
 Son tuo, Persea gentil, ché morte sola
 puommi da te partir. Ecco la fede.
 SGAR.
660Pian, pian. No se fa nozze senza mi
 e senza testimuni.
 ARD.
                                    O mio Gareglio,
 patron della mia vita, eccomi giunto
 quando men sperai su l’alta cima
 d’ogni felicità, d’ogni contento.
 [218] PERS.
665Tu sei qui, traditor?
 SGAR.
665                                       Oh mo, sì, sì,
 traitore, que a’dissé rengraziarme
 che a’v’ho catò marìo bello e galante!
 Mo guardè mo chialò se a’cognossì
 chi è quisti.
 PERS.
                         O mia Licinia, già ch’el
670fece Ortigio per te godo e gioisco
 d’ogni tua gioia.
 LIC.
                                 Et io muta stupisco,
 né tra me stessa so quel’ch’io mi creda,
 né men so che chiamarti, ché Fidizio
 mi pari e pur sei donna.
 SGAR.
                                               Mo st’intrigo
675mi a’’l destrigherò co abbiè pi tempo.
 ARD.
 Bastevi che Gareglio è sol cagione
 di quanta gioia è qui sparsa tra noi
 col suo sapere e col fingersi pazzo.
 PERS.
 Adunque ha finto? Astuzia memoranda,
680degna di farne una memoria eterna.
 ORT.
 Ora che tutti allegri
 siamo per opra di Gareglio nostro,
 essendo l’ora tarda
 alla capana mia
685[219] portandolo cantando andiamo ratti
 in guisa di trionfo.
 SGAR.
                                     Aldì, no fè
 qualche panzana, che a’caìsse in terra
 e romperme du denti o na culata.
 ARD.
 Pigliamo tutti. Piglia anco tu, Ortigio.
 ORT.
690Eccomi. Leva insieme e poi cantiamo.
 “ Viva viva il buon Gareglio
 per cui siam tutti contenti
 fuor d’affani e di tormenti
 e goder spreriamo meglio.
695Viva viva il buon Gareglio ”.
 (Terremoto. Si apre il tempio.)
 R693 AMORE
 Sciocchi pastori, simplicette ninfe,
 qual cieco error v’abaglia
 che del vostro gioir grazie rendete
 ad uom mortale e un dio
700ponete già in oblio?
 A me grazie rendete, che di tante
 vostre allegrezze son vera cagione,
 [220] e l’astuzia e l’ingegno e l’opre rare,
 ch’in quel bifolco avete oggi compreso,
705dal mio divin voler venute sono.
 Dunque volgiete i carmi e i sacrifici,
 le vitime, gli incensi a questo tempio,
 che ciò facendo il Ciel saranvi amico
 e de’vostri alti amor Euganea bella
710fìorirà per mill’anni e mille lustri.
 SGAR.
 Èlo andò via?
 ARD.
                            Sì, sì.
 SGAR.
 Ve hegi dito che a’me romperé el viso?
 Mo cancaro, a’m’he dò na sbesolà
 delle maure!
 ARD.
                           Avete voi veduto
715il nostro dio?
 SGAR.
715                          Mo a’n’he zà vezù dî,
 che a’g’he lombrò quante stelle iera in cielo.
 
 
 Atto V Scena ultima
 
 714 MANG.
 Se a tanto gran rumor, tanto fracasso
 [221] non sono aperti o rotti questi monti,
 io m’inganno.
 DRUSC.
                             Io credei d’esser al fine
720della vita. Ho sudato qui di sotto
 ch’io son tutto in un’acqua e se non credi.
 MANG.
 Va’via, che amorbi! Ma che gente è questa
 ridotta insieme? A questo effetto deono
 esser venuti anch’essi come noi.
725Buona note.
 ARD.
725                        Mangino, ben venuto.
 MANG.
 Che gran rumor, che terremotto orrendo
 è stato questo, onde qui tanta gente
 s’è ridotta a quest’ora?
 ARD.
 Volendo noi portar Gareglio nostro,
730cagion de’nostri amorosi contenti,
 a la capana cantando sue lodi,
 con quel rumor s’aperse il tempio tutto,
 ove dal nostro dio benigno Amore
 fummo ripresi in voler dar le lode
735d’un tanto ben a un uomo e non a lui.
 Questo é stato il rumore.
 MANG.
                                                Oh, caso grave!
 Ma come sète poi tutti contenti?
 [222] SGAR.
 Guardène a du a du. Qui che s’è apresso
 xe marìo e mogiere, e s’el ve pare
740vêr Milia che xe un omo e quel Fidizio
 na dona, l’è così, no cerchè altro,
 che anaganto per strada a’saverè
 le cose co le va.
 MANG.
                              Non vego l’ora.
 Il tardar che facciamo
745qui senza frutto alcuno non è buono,
 però ratti avianci
 ver la capana, acciò possiamo insieme
 tornar al nostro tempio a render grazie
 al nostro dio de’beneffizii tanti
750con farli sacrifizio.
 ARD.
750                                    Prendi
 tu, Druscillo, la via già c’hai la luce.
 DRUSC.
 Venite tutti inanzi me.
 ORT.
                                            Venimo.
 ARD.
 Andiam, ben mio. Ognun prenda la sua.
 Gia c’ha d’andar così, ti seguitiamo
755che son fuori d’intrico.
 SGAR.
755                                           Va’pur, Dina,
 [223] va’là, va’pur, va’, va’, ch’a’vegno.
 SERV.
 Io vo.
 SGAR.
              No te voltar, che a’n’he pi vuogia
 che te n’he ti de starte sempre a pè.
 Brigà, sto fantolin che xe vegnù
760a farme dar del culo su ste pri
 m’ha inturbiò, perzonte a’vuogio
 nar an mi a ca’e meterme qualconsa
 de caldo su la panza. Se ve asan
 dò fastidio o instornè, no dè la colpa
765lomè a la vostra zentilia e bontè,
 che v’ha fatto star citi; e se per sorte
 a’v’aon fatto piasere, vì, metìve
 a criar tutti e dir: ” Viva l’Amore! ”.
 
 
 Intermedio IV
 
 [255] Cinque villani cantando
 
 O beneto séa l’amore
 e colù ch’è inamorà.
 Se ghe n’è, cara brigà,
 che no séa d’Amor ferìo,
5brustolò, cotto e rostìo
 o ’l é morto o ’l è giazzà.
 Tandaran dan daran
 tandaran dan daran
 tandaran dan daran darandà.
10[256] Mo no vìo che belle tose
 che par stelle inarzentà?
 Guardè pur de qua de là:
 quî biegg’vuocchi e quel bel viso
 n’èl d’amore un paraìso,
15el pi bel que séa mè stà?
 Tandaran dan daran
 tandaran dan daran
 tandaran dan daran darandà.
 O cagnazze traitore
20senz’amor, senza pietè,
 que g’h’arìo po al fin guagnè?
 Co a’supiam morti e sbasìi,
 strucolè, guasti e fenìi,
 que costrutto harìo catà?
25Tandaran dan deran
 tandaran dan daran
 tandaran dan daran darandà.
 LENZO
 O cancaro, el sarae el bel mestiero haer ben da magnare, e mieggio da bevere
 [257]e tendere a cantare ! A’crezo che no se vegnerae mè viecchi, mi.
 BAL.
 Moa, andassan a risego de toccar delle cigale, che crepa cantando!
 LENZO
 Ossù, véte chialò quel laghezzuolo que a’te diséa? Guarda quanta cana longa e bella. Conzate pure entro e laora da valente. Gran fatto che a’n’in fagam ancora fina sera un meggiaro?
 BAL.
 Mo via pure, anè entro tutti, e no ve stè a supiar su le ongie!
 LENZO
 Orsù, a le man.
 LAT.
 Quando sarà quel dì che questa vita
 habbia riposo in terra, o Giove? Ahi, quanto,
30ahi, quanto il morir bramo! O quando mai
 miei sfortunati errori avranno fine?
 Deh, di me ti sovenga,e se di mente
 [258]t’è già Latona uscita
 che tanto amasti già, questi tuoi figli,
35che son pur sangue tuo, sianti nel core.
 Vedi che semivivi arsi dal sole
 non trovan nel mio seno
 più nutrimento alcuno
 per la sete crudel che mi molesta?
40O sfortunato parto! O cari figli!
 LENZO
 Laorè gualivo, tusi. Aldìu? A chi digo, an? Laorè gualivo, e anèlla toganto a fatto.
 LAT.
 Oh, lodate le stelle, io sento pure
 voci non molto lunge! Ecco a quel lago
 gente che attende a tagliar canne e gionchi.
 Voglio accostarmi a loro.
45Gran fatto che non habbian
 seco dell’acqua ond’io la sete spenga?
 Fàciavi i dei contenti,
 [259]fortunati pastori.
 LENZO
 Ben vegna, morosa bella. Mo que andèo cercanto de quence così soletta? Pota, mo a’sì tutta scalmanà! Guardè ch’el tira un certo ventesello, che a’no pigiessi la ponta de qua via.
 BAL.
 Che è quello, Lenzo?
 LENZO
 L’è na femena.
 BAL.
 O cancaro, la me par na cingana, mi.
 LAT.
 Deh, cortese pastore,
50se in voi regna pietade
 socorrete in un punto
 tre vite che già sono
 da sete ardente molestate e vinte.
 BAL.
 Cancaro, Lenzo, bisognerae che le nostre vacche fosse de sta naggia, veh, che le in fesse du a la botta!
 LENZO
 Tasi, bistia, e daghe da bevere
 [260]s’te ghe n’he in la bottazza.
 BAL.
 Se a’l’he, co disse Nalon, ’l é adesso che a’l’è rivò! E sì a’te vuò può an dire que tanto ghe n’ésseggi, co a’ghe ’l darae tutto. An, quella zoene, ègi vuostri sti du tusi? Gi haìo fatti vu?
 LAT.
 Sono miei, gl’ho fatt’io.
 BAL.
 Disìme un puoco (potta, gi è bieggi:): se per sorte a’ve desse la robba e che a’ve pagasse la fattura, m’in faséo du anca mi de sti tusi?
 LAT.
 Misero, tu non sai con chi ragioni!
55S’esser non vuoi cortese,
 attendi al tuo lavoro e qui mi lascia,
 che almeno a questo lago,
 benché torbido sia,
 mi caccierò la sete.
 BAL.
 Mo te sì soperbia! La sarae bella:
 [261] te vuò ti della nostra robba,e sì te no me vuò ti dar della toa?
 LENZO
 Balota, vuòto che a’t’insegne? Làgala stare e tindi al to laoro.
 BAL.
 O cancaro, te sì deventò don Piombon an ti! Va’laora, s’te vuò, e làgame goernare a mi.
 LENZO
 Mo a’vago mi. Veh, serore, mì a’no he né vin né acqua, che a’v’in darae oentiera.
 LAT.
 Pazzientia, ti ringratio.
 BAL.
 Casì que, s’te vorè bevere, che te scovegnerè esser pi morevole!
 LAT.
 Non credo io già che tu negar mi possa l’acqua di questo lago.
 BAL.
 Mo perqué no?
 LAT.
 Perché sì come il sole
 [262] è comune fra noi,
 così comune è l’acqua.
 BAL.
 Mo se agno consa xe comuna, sto lago è me,e sì a’no vuò che te ghe bivi.
 LAT.
 Tuo non è, ma quantunque
 tuo fosse, io ti dimando
 in grazia in don che ber tu mi vi lasci.
 Che ti tolgo io del tuo?
 BAL.
 Mo que te toràegi gnan mi del to?. Véh, a’ghe vuò pi presto saltar entro coi piè ca che te bivi! Tusi, pestè ben entro in l’acqua,e fè vegnir el fango de sora! Te no beverè zà, cingana rustega!
 LAT.
60O sommo Giove, a tale
 dunque ridotta son, che questa gente
 rustica e vile a me fa unta et oltraggio?
 Deh, vendica I’offesa e fa’, che ’l puoi,
 che godan di quest’acque immonde e schive
65[263] queste rustiche genti,
 ch’eternamente sia
 questo lago lor lido e lor ricetto.
 BAL.
 Va’in mal’ora! Guà gu” guà guà.
 LENZO
 Balota, que steto a cigare?
 BAL.
 Guà guà guà.
 LENZO
 O pota del cancaro, mo que vegogi mi? Balota, Ruvigiò, tusi?
 BAL.
 Guà guà guà.
 LENZO
 O puovereto mi!
 BAL.
 Guà guà guà.
 LENZO
 Poh poh, mo que a’vego? In pè di miè compagni a’sarè vegnù a pescare a rane, mi? O poveriti, andè mo tante le brespe. Cancaro a le cingane! L’iera na striga, quella, o na anguana!
 BAL.
 Guà guà guà.
 [264] LENZO
 Orsù, criè pure, andè saltando in qua e in là, che a’vuò corere a ca’pi presto che de passo, mi, que a’no vorae doentare an mi un ranon. E va’pissa, in mal’ora! M’hala mo pissà su na scarpa, questa?
 BAL.
 Guà guà guà.
 LENZO
 Balota, adio. No me stare a dir altro, que a’tuogio la to femena per renuncia, fa’conto. Tindi pur a cantare, che a’vago in qua, mi. Cancaro a le femene!